Luigi Pirandello, Dostoevskij e la polifonia

02-03-2016

Un libro prezioso

È un libro prezioso questo Dostoevskij e la polifonia. Dal romanzo al teatro – edito da Manni con la cura di Paolo Jachia – che raccoglie scritti critici e articoli di Luigi Pirandello firmati dal 1890 al 1936. Un’antologia da cui emerge il legame tra lo scrittore siciliano e lo scrittore russo, e – appunto – l’attenzione narrativa delle voci. Come preziosa è l’introduzione del curatore, che approfondisce non solo questo rapporto, ma aiuta la comprensione della posizione di Pirandello nel mondo letterario italiano e la sua “distanza” dall’enorme successo di Gabriele Dannunzio.

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Per affrontare la questione del rapporto tra carnevalesco e polifonico in Pirandello credo sia utile, preliminarmente, ricordare la precisa e storicamente fondata distinzione bachtiniana tra carnevalesco e polifonico:

Dostoevskij è il creatore della vera polifonia, che certamente non esisteva e non poteva esistere né nel dialogo socratico, né nell’antica satira menippea, né nel mistero medioevale, né in Shakespeare e Cervantes, né in Voltaire e Diderot, né in Balzac e Hugo. Ma la polifonia era stata sostanzialmente preparata in questa linea di sviluppo della letteratura europea. Tutta questa tradizione (scilicet: carnevalesca), che comincia dal dialogo socratico, è risorta e si è rinnovata in Dostoevskij, nella forma irrepetibilmente originale e novatrice del romanzo polifonico.

Detto ciò, viene necessario porre quello che io ritengo il problema fondamentale dell’opera di Pirandello rispetto al polifonico ossia l’articolarsi e l’alternarsi all’interno della sua opera di esiti polifonici e di esiti che al polifonismo non si richiamano e questo su una linea di svolgimento che non è meramente diacronica ed evolutiva. È bene precisare che questa mia riflessione si muove sulla scia di un importante e fondativo studio di Benvenuto Terracini, il quale nota nelle novelle pirandelliane l’alternarsi di due registri diversi, l’uno, potremmo dire, tendente alla polifonia, l’altro al carnevalesco monologico.

A sua volta Marina Polacco, in un recente e pregevole studio che invera in senso bachtiniano le posizioni di Terracini, precisa che «la contiguità»dei due registri stilistici «con il sistema umoristico è palese» ma (che) l’affinità ideologica non implica uniformità narrativa. Le strategie umoristiche… conferiscono alla narrazione quella marca inconfondibilmente pirandelliana; l’identità di facies, tuttavia, non deve far dimenticare le differenze: il mondo è guardato secondo la stessa prospettiva ma‘narrativizzato’ in maniera diversa.

Evidenziata l’importanza di principio degli studi di Terracini e Polacco – la cui posizione credo di poter sintetizzare ed estendere nella considerazione che, appunto, alcuni esiti prosastici di Pirandello sono polifonici e altri semplicemente carnevaleschi – sorge un problema conseguente, ossia quello del rapporto tra il polifonico e la forma teatrale. A sua volta poi però questa questione porta a due ulteriori quesiti, uno specifico: il teatro di Pirandello è, in tutto o in parte, polifonico? e uno di principio: può il teatro essere polifonico? Ritengo opportuno, per iniziare ad impostare una risoluzione di tutto questo fascio di interrogativi in una prospettiva storica fedele al pensiero di Bachtin, cominciare col rileggere un passo magistrale di Nino Borsellino che, al culmine di una lunga carriera di “pirandellista”, afferma con gagliardo piglio giovanile:

Vorrei tentare più avventurosamente una conclusione: l’universo pirandelliano è tutto attraversato da un istrione, è lo spazio dell’istrione. Quando Pirandello, in calce all’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia che accompagna la ristampa del Fu Mattia Pascal del ’21, toglie a una figura dell’impossibilità, a un adynaton (‘maschera nuda’), la definizione del suo personaggio, la sua consapevolezza della condizione istrionica di tutta intera la sua opera appare ormai piena. Il titolo che racchiude la sua produzione teatrale potrebbe estendersi senza alterazioni di significato ai romanzi e alle novelle.

Paolo Jachia

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Prosa moderna (dopo la lettura del Mastro don Gesualdo del Verga)

Vita nuova, 1890

Si è mai posto mente a… il numero relativamente scarso, anzi scarsissimo, dei lettori italiani dei nostri autori, specialmente di prosa? (…) La ragione, se non m’inganno, va cercata non nella parola, ma nella forma: la nostra prosa non è viva, non è amabile; le manca ciò che solamente può dare anima, la spontaneità. (…) Da un pezzo, molti tra i novellieri e i romanzieri moderni, in cerca d’una prosa viva e spontanea, non scrivono diversamente l’Italiano. E il tentativo, fino a un certo segno, meriterebbe lode, ove fosse attuato con più senno, con più coscienza del valore che dovrebbe e potrebbe avere l’opera propria, ove insomma, i nostri scrittori non fossero così digiuni, come spesso sono, della disciplina filologica. Poiché la gran faccenda dovrebbe esser quella di fermare questo immenso ondeggiamento della forma, del significato della parola, del valore delle espressioni; di promuovere l’unità della lingua, la tecnicità della parola, la sicurezza, questo «gran bene» per dirla con l’Ascoli, «che all’Italia manca». E per far ciò, purtroppo, non basta aver solo del talento e la facilità di aprir bocca e lasciare andare.

Bonn am Rhein, 1890

NOTA

È davvero precoce l’interesse di Pirandello per quella che oggi chiamiamo “narratologia” ed è altrettanto significativo il suo muoversi con una doppia caratteristica attenzione. Da un lato Pirandello affronta la questione di una “prosa moderna” con un forte respiro internazionale, dall’altro riflette sul problema di una “prosa moderna” con un altrettanto forte rigore filologico. Così, se Pirandello ha ben presente i rapporti tra Francia e Italia, significativa anche la localizzazione posta in calce al suo scritto, Bonn. Difficile pensare alla luce di tutta questa vasta preparazione che potesse sfuggirgli l’importanza di Dostoevskij. Infatti, come dirà da qui a poco il futuro amico di Pirandello Capuana: «Da un lustro in qua, l’avvenimento artistico più notevole è senza dubbio l’invasione del romanzo russo (…) la fortuna delle opere del Tolstoj e del Dostoevskij» (da un saggio del 1892 poi ripubblicato nel volume intitolato Ismi contemporaneidel 1898 e che ritroviamo nella biblioteca superstite di Pirandello). Chiaro il senso dell’affermazione di Capuana, resta da chiederci perché Capuana dica “un lustro”. La risposta è nel fatto che Capuana guardava come faro culturale alla Francia e che in Francia il grande avvenimento era stato la pubblicazione del volume del De Vogué dedicato al Roman Russe, prima in rivista, nel 1885, e poi in volume nel 1886. Cinque anni prima, appunto. Una conferma della data e del “libro fatale” ci viene da un altro discepolo e amico di Capuana, Federico De Roberto il quale, su il «Giornale di Sicilia» del 12 maggio 1888, pubblicava un saggio dal titolo significativo di “La letteratura contemporanea: la corrente russa” (ora in Il tempo dello scontento universale, Articoli dispersi di critica culturale e letteraria, Aragno, Torino 2012). Qui il romanziere e giornalista siciliano, di poco più anziano di Pirandello essendo nato nel 1861, dunque solo sei anni prima del suo conterraneo, scriveva:

L’interesse con cui sono accolte, in Francia come in tutti gli altri paesi occidentali, le produzioni della letteratura russa è sempre grandissimo. (…) Nei romanzieri russi si avverte (uno) strano miscuglio del realismo con l’idealità… Turgueneff è più tenero, Tolstoi più mistico, Dostoevskij più tetro… con la scorta di un libro che va additato fin da ora all’attenzione dei lettori: Le roman russe del Merchior de Vogué.

Se quanto finora affermato è probabilmente esatto per i “francofoni” Capuana, De Roberto e D’Annunzio, non possiamo escludere invece per Pirandello che la lettura di Dostoevskij, o la notizia della sua produzione artistica, sia invece avvenuta proprio in Germania e in tedesco (nulla comunque di Dostoevskij è rimasto nella superstite biblioteca di Pirandello e dunque nulla di certo è possibile affermare). Qui, ad esempio, agiva Georg Morris Cohen Brandes (nato a Copenaghen il 4 febbraio 1842, morto il 17 febbraio 1927) uno dei primi a includere il mondo slavo nella “cultura essenziale” dell’uomo europeo e autore di un volume su Dostoevskij del 1889 ovvero quando Pirandello è proprio in terra tedesca (ricavo queste informazioni dalla monografia di Gianlorenzo Pacini, Dostoevskij, Bruno Mondadori, Milano 2002 e dall’Enciclopedia Italiana). Ora tornando a De Roberto, dobbiamo aggiungere che egli non era solo un saggista ma un romanziere e in questi anni, in coerenza a quanto ora detto, cercherà di seguire l’esempio artistico di Dostoevskij anche se con esiti ben lontani dall’originale (è questo il senso di una recensione del 1887 di Pirandello al romanzo Spasimo di De Roberto, pubblicato parimenti nel 1887, dove è ricordato Dostoevskij tra le fonti d’ispirazione maldestramente usate dall’autore dei Viceré: lo approfondiremo tra poco). Con tutto questo abbiamo chiuso il cerchio e con lo stesso risultato. Anche per Pirandello, come per De Roberto e D’Annunzio, occorreva anche in Italia andare oltre Verga e la “lezione russa” poteva essere una rotta per cercare “una prosa moderna”. Una conferma ulteriore della presenza dei “russi” nell’orizzonte culturale di Pirandello viene, in effetti, da alcuni suoi versi di poco successivi e che bene concludono questa nota (i versi sono firmati Paulo Post e compaiono sulla «Critica» del 28 marzo del 1896 e vorrebbero avere un taglio ironico: si immagina infatti una “lettera poesia” scritta alla Francia, appellata “Gallia”, e in questo va evidenziato in particolare il post-scritto che conclude la “poesia”: in realtà il testo è un articolo polemico e lo trascrivo senza rispettare, anche per questo, gli “a capo”):

P.S. Signora Gallia mia, me ne scordavo! I libri… dica, che libri mi dà da leggere? Il D’Annunzio è dunque un bravo romanziere? Ho di lui, la scorsa està, letto un libro, che Lei, tanto cortese, mi tradusse, quantunque per metà (dicon almen) composto ei l’abbia a spese di Lei. // Se è vero, l’amo tanto più, quanto che or lo conosco esser francese. Gli altri sono lo stesso, su per giù: tutti da Lei derivano, e per ciò non val la pena che ci perda su tempo, poiché li ho letti e già li so nel testo. // E dica, son di moda ancora i romanzieri russi e l’Ibsen? (…) E Lei mi creda la Sua serva ‘Italia’.

Naturalmente nei versi troviamo anche l’ennesimo attacco a D’Annunzio e al suo essere “scimmia”, non discepolo, di Dostoevskij e dei “russi”; ancora preciso che il termine “scimmia” non è mio ma di Pirandello e lo troveremo ricorrente negli articoli pirandelliani di questi anni.

De Roberto, Gli Amori, Erotografia

«Ariel», 18 dicembre 1897, a firma Prospero

Erotografia: termine nuovo; soggetto tanto vecchio, quant’è vecchio il mondo; però sempre nuovo: ma qui no. La derivazione di questo libro dalla Physiologie de l’amour moderne del Bourget è evidente e salta agli occhi a ogni pagina così, che chiunque abbia letto l’opera dello scrittore francese se ne accorgerà senza dubbio e in prima. Si può anzi affermare, che l’unica differenza tra i due libri è questa: che in uno la materia è divisa in ventidue meditazioni; nell’altro, in trenta lettere indirizzate a una spirituale contessa. La differenza però nella forma espositiva non altera per nulla il metodo, né cangia il tono. (…) Il De Roberto inoltre parla anch’egli di Cosmopoli, o conia anzi la parola Flirtopoli, a immagine e somiglianza; e poi cita Taine e cita Stendhal, e mai una volta Bourget, neanche per sbaglio come se non esistesse, come se egli non avesse letto mai nulla di lui; mentre, perdio, sembra che non abbia letto mai altro che libri francesi, Flaubert e Maupassant e Mendes e questo e quello, citati continuamente, e qua una frase e là un motto o un verso o una strofa intera, finanche di canzonette… Perché bisogna sapere che l’autore de I Viceré (uno dei libri più solidi dell’arte narrativa contemporanea), se per il contenuto non si è allontanato d’un passo dal Bourget, ha fatto invece gran passi nell’arte dello scrivere… E finalmente si è anche lui lanciato alla conquista del simbolico regno delle lettere maiuscole. Ammirate! (…) ‘Egli non trovò di meglio che varcare, una sera, la soglia di uno di quei luoghi dove si vende il Piacere, ma si compra il Disgusto’. Precisamente, soggiungo io, come per il Piacere d’imitare e di contraffare questo e quello, si compra il Disgusto dei lettori, Ah un gran disgusto davvero maiuscolo.

NOTA

Un attacco violento (e gustoso) a De Roberto che va compreso alla luce di quest’inciso capitale: «I Viceré… uno dei libri più solidi dell’arte narrativa contemporanea». E di una considerazione più generale. Va bene andare oltre Verga e Capuana (magari anche seguendo Dostoevskij come ha fatto lo stesso De Roberto in Spasimoprontamente recensito, come abbiamo visto, da Pirandello) ma non il cambio di casacca e l’arruolamento dannunziano, campione del «Piacere di imitare e contraffare questo e quello» (il romanzo di D’Annunzio intitolato Il piacere è del 1889; “questo e quello” sono allora Dostoevskij e Tolstoj? Ossia i modelli delle opere successive di D’Annunzio Giovanni Episcopo e L’Innocente del 1892? Può essere, ma parlando di D’Annunzio, come ci insegna l’opera capitale di Praz e come spesso ci ha ricordato anche lo stesso Pirandello, quanto a modelli d’imitazione, c’è l’imbarazzo della scelta). Però il brano che stiamo analizzando ha un senso ulteriore che possiamo meglio esplicitare trascrivendo un passo coevo (in «Ariel» dell’8 gennaio 1898, ancora a firma “Prospero”: un’altra “maschera nuda” ben coerente con il viso “seriocomico” e “umoristico” di Pirandello) dove il Siciliano esprime più chiaramente questa necessità di andare oltre il naturalismo e il verismo senza per questo cadere nel simbolismo dannunziano. Scrive Pirandello: «In questa conferenza il Tovaiera… accennate poi le caratteristiche e le fonti della poesia del D’Annunzio e dei suoi imitatori, e dato uno sguardo alla recente reazione contro il naturalismo egli (tenendo conto anche delle influenze russe) conclude con calde e poetiche parole, ecc.». Il tema è dunque sempre quello di andare oltre il naturalismo «tenendo conto anche delle influenze russe» ma non con D’Annunzio, come invece fa qua De Roberto (cfr. SI, p. 314).