Luigia Sorrentino, La nascita, solo la nascita

01-07-2009
Intervista, di Flaviano Masella

"La nascita, solo la nascita": terra, acqua, ventre materno fecondo. La tua sembra essere una poesia non solo immaginaria, ma anche piena di una realtà concreta come gli elementi naturali che contempli a lungo.

In questa raccolta, scritta ormai tre anni fa, vi è una sezione aggiunta e scritta di recente, nel 2008, Il peso della terra scritta dopo la strage in cui furono uccisi sei extracomunitari africani a Castevolturno. Il titolo non è casuale. Sembra proprio che la terra sia divenuta un peso per l'essere umano. Vi sono popoli che non hanno terra, vi sono popoli a cui la terra viene negata da sempre, per razzismo, ineguaglianza, intolleranza, ragioni politiche o religiose, o perchè semplificando, non si riesce a trovare per questi popoli un lembo di terra disposto ad ospitarli. Ora la strage di Castevolturno era un pretesto emozionale, uno spunto per parlare dei pololi e della terra. Quello che volevo comunicare, in quel corpo a corpo con quel popolo era proprio la difficoltà di stare sulla terra, ma di vivere la terra, appunto, come un peso. Ne La nascita, solo la nascita, come anticipa il titolo, c'è il desiderio e la necessità di affermare una rinascita dopo aver attraversato una morte. Si muore nascendo, e viceversa. E poi vedere morire è un po' sentirsi morire. Questi ultimi decenni sono stati costellati dalla visione costante, perenne, quotidiana, di morte e distruzione che ha avuto un impatto fortissimo sul genere umano. Tutti abbiamo partecipato a questa distruzione, anche se con dei filtri - l'essere lontano da quella specifica realtà - che inevitabilmente limita la visione. Il ritorno ad elementi naturali come terra, acqua, grembo, ha rappresentato e rappresenta per me la necessità di riappropriarsi del lontano da noi, dell'origine. Riappropriarsene per ristabilire l' equilibrio fra sé e il mondo dopo la catastrofe. Il libro è dedicato agli esiliati, a coloro che soffrono, per induzione o per deduzione. Le onde della terra, che è il poemetto più lungo, ma anche La cattedrale, che chiude la raccolta, tendono a ristabilire, seppure con modalità diverse, il perduto rapporto con il sacro, vale a dire, con il significato più profondo dell' esistenza.
Nella prima raccolta di poesie "C'è un padre" (Manni, 2003) invece avevi evidenziato una poetica alla ricerca di una realtà che parlasse al di là del visibile.
Le poesie contenute in C'è un padre sono (soprattutto quelle della prima parte) poesie che ho scritto quando avevo vent'anni. La realtà, dunque, non poteva apparirmi che al di là del visibile. Forse quelle poesie avrebbero dovuto uscire molto prima, alla fine degli anni Ottanta, e forse un giorno le ripubblicherò restituendo ad esse la connotazione originaria, datandole. Se ci fai caso, la lingua di quei primi versi era assolutamente innovativa e anticipatoria di un sapere "visionario, oracolare e solenne", come scrisse Milo De Angelis, assolutamente autentico. Quelle poesie, se consideri l'epoca in cui furono scritte, sono molto diverse da quello che in poesia si scriveva in quegli anni. Preciso, anche, che in quelle primissime poesie immaginative ho sempre sostenuto un tono lontanissimo da ogni sperimentalismo.
Nella prefazione al tuo libro Maurizio Cucchi parla di "presenza materica al tempo stesso compatta e ferocemente inquieta" e definisce il tuo testo "irriducibile" e privo di concessioni.
Il mio linguaggio è privo di concessioni. Ha ragione Cucchi. E' una caratteristica della mia poesia, che ha radici lontanissime in me. Preferisco evocare piuttosto che raccontare. D'altra parte nella poesia sono più le cose che non si dicono - o che non si devono dire - che quelle che si dicono. Molto è fuori dalla pagina. E questo rende il messaggio poetico misterioso e, al tempo stesso, solenne. La poesia non ha mai un solo significato, ma tutti i significati possibili. Chiedo un piccolo sforzo ai miei lettori che dovranno avvicinarsi a testi come In quella vertebra o Lo slancio della rosa. Ma sono sicura che ciascuno troverà una propria comprensione. Nel poemetto In quella vertebra parlo, nella parte finale, di un tradimento. Tutti siamo stati traditi, almeno una volta nella vita, parlo di un tradimento che ha sovvertito il rapporto tra sé e il mondo, che lo ha modificato tanto da far prendere alla nostra vita un'altra direzione. Questo tradimento, simbolicamente è rappresentato dal colore bianco, dal camice che qualcuno ha indossato. Ne Lo slancio della rosa invece, c'è il desiderio di esorcizzare la morte di una persona a me cara attraverso la poesia. C'è una contaminazione fortissima anche lì, tra consanguinei: la poesia di essere al mondo, il venire al mondo e l'inesorabilità della morte: "nel tuo trenta d'aprile". Alla fine non si sa più se il trenta d'aprile è l'ora della nascita o l'ora della morte. Anche questa credo sia un' esperienza comune a tutti, e per questo vicina a tutti. E poi mi chiedo: in un'epoca di distrazioni, di superfluo, qualcuno si sarà accorto dell' "inutile esattezza del bacio stampato sulla guancia nella bella mollezza della carneficina?"
La cattedrale
I
intorno a questo altrove
fin dall'infanzia
occhi di grandi in ogni fondo
entrano in qualcosa di ignoto
verso il loro dentro denso
tutto sembrano sapere del vento
e della pioggia in primavera
esseri di asilo, affettuosi
esseri, e il dio che scende li lascia
entrare, accoglie nutrimento
il dio lieve
II
poi vedi la luce fendere il volto
e il volto scostarsi dalla luce
e vedi la luce cadere
sul mosaico dorato

accade qualcosa d'umano
nella navata centrale rotola
dalla cupola il volto sostenuto
nel semicerchio

siate colonne
quando vi solleverete
l'uno verso l'altro
il volto vostro esca
dal marmo
e torni qui dove ora siamo

III
come un male sdraiato
nelle piaghe del mondo
sogno di uscire con il giorno
e di incontrare quei semplici
quando eravamo
quel vento che non riesco a pronunciare
quando il mattino è rarefatto,
in un filo d'alba arriva e gli alberi
prendono il colore che vogliono
il giorno in un segno di luna
a dismisura s'inclina su di noi
e guarda, qua sotto nel suo freddo
il liquido, le tinte, i cristalli