Uno scrigno magico di parole, di Maria Pia Romano
Alla ricerca del sogno magico si andava da bambini, eppure qualcuno di noi non ha smesso, per fortuna, di cercare la sua Isola che non c’è. Con gli occhi guizzanti di luce, insegue quell’acchiatura, che non si trova ma si brama, e questo di per sé regala il sorriso.
In una vita che si spinge incessantemente in un turbinio di impegni vorticosi, ai quali ci obbligano i ritmi attuali, in cui bisogna lavorare il triplo rispetto al passato per arrivare a fine mese, la ricetta per salvarci, a mio avviso, è fatta di tre ingredienti: bellezza, ironia, coraggio. Sosteneva una cosa simile anche T. S. Eliot “Fare le cose utili, dire le cose coraggiose, contemplare le cose belle: ecco quanto basta per la vita di un uomo.”.
Piero Manni e la sua splendida Casa Editrice, hanno fatto tutto ciò con ironia, racchiudendo in uno scrigno di parole un utilissimo vademecum per districarsi nel dedalo delle espressioni dialettali salentine e comprendere come usarle, all’occorrenza. La scelta di pubblicare Mai pe iabbu è coraggiosa, in un tempo in cui tutti ci sforziamo di parlare in inglese. E quanta bellezza c’è in queste pagine, che sono un inno alla vita, che si colora di espressioni autentiche e potenti, capaci di rendere il senso meglio di qualsiasi perifrasi, meglio di qualsiasi emoticons.
In queste pagine ho ritrovato la mia acchiatura, ovvero quella storia che raccontavano le nonne “la leggenda corredata di sciacuddri, i folletti dispettosi e qualche volta generosi che apparivano dando le coordinate per ritrovare il tesoro, una pentola di terracotta colma di tornesi di oro sepolta tra le rovine di qualche antica costruzione, o sotto un gran masso in campagna.”. Proprio non avrei immaginato che essa “era posta sotto i menhir di cui è ricco il Salento; a Carpignano il menhir Staurotomea (Croce grande) era alto 4,10 metri secondo una testimonianza del 1942, ma fu
abbattuto alla ricerca dell’acchiatura e oggi è alto appena 148 centimetri.”.
Che bello leggere queste storie, immergersi nei detti popolari, respirare il sapore deciso di una Terra che parla nella sua lingua, dipingendo sensazioni e stati d’animo con impareggiabile vigore.
“Mai per gabbo, dove gabbo sta per dileggio, derisione, riprovazione. Gabbo, dal francese antico gab, burla.”.
Io che sono nata a Benevento, una nonna salentina non l’ho mai avuta. Per molto tempo sono stata letteralmente ossessionata da questo modo di dire, non comprendevo, non coglievo il senso. Poi con gli anni ho capito, finalmente, cosa volesse dire questo jabbo: “Ti do un’informazione, ma non voglio esprimere un giudizio di condanna. Ha contemporaneamente una valenza scaramantica, di scongiuro: non condanno, non derido, potrebbe capitare anche a me. “Te lu iabbu non ci mueri, ma nci cappi.” Di gabbo non muori, ma ci capiti; non deridere o condannare, ci puoi capitare tu.”.
E se ci capitassi anch’io? Potrebbe essere, in fondo sembra non sia letale.
In questo caso bisogna accettare, con ironia, appunto. Il sale della vita.
“I miei genitori (classe 1898 lui, 1907 lei) conoscevano e parlavano il griko, e consapevolmente hanno impedito a noi figlioli di impararlo perché saremmo stati discriminati rispetto a quelli che parlavano: l’italiano?, no, il dialetto romanzo...”, spiega Piero Manni, che sottolinea: “Abbiamo perso la ricchezza, la opulenza di una lingua formatasi, cresciuta e adeguata ad un territorio e alla cultura materiale legata ad esso, provvista delle informazioni e conoscenze congrue ed acconce a relazionarci col territorio e con la comunità. Ci sono espressioni di quella lingua che forse oramai non hanno senso o significano poco, in quanto sono smarrite le idee che rappresentavano.
Abbiamo voluto in questo libro ricordarne alcune, ed invitato degli amici ad illustrarne qualcuna.
Cui prodest? Mah, mettici un po’ di memoria,un pizzico di sofferenza della privazione, e un flebile monito: non gettiamo con superficialità tutta l’acqua del catino: potrebbe esserci dentro anche il bambino.”
Proprio così. E sfogliando, leggendo, sorridendo, si apprende, si ricorda, ci si sente come ragazzini che hanno appena rubato la marmellata e si ha voglia di partire a cercare l’acchiatura.
Magari non la troveremo mai, ma dopo queste pagine saremo un po’ più leggeri nell’animo e un po’più consapevoli delle storie di un Salento povero e vero, in cui si parla una lingua schietta, che s’incide dentro.
Io mi sono sinceramente divertita leggendo questo libricino. Se voi, mai pe iabbu, sarete così seri e grigi da non provare entusiasmo cristallino verso queste pagine, allora fazza diu: l’ironia non è il vostro forte. Oppure state di malesciana, cattivo umore, e dovete riprovare il giorno seguente.
Attenti, però, che se prendete lo jundolo, cioè se iniziate a provarci gusto, lo finirete in poche ore.
E se il vicino di ombrellone vi chiederà menamè di passarglielo, voi dite pure “Nu tte sia ppe cumandu, ma compratelo in libreria”, perché è bello che questo piccolo scrigno di parole tutto salentino resti nelle nostre case.
In fondo, i sorrisi si serbano gelosamente, per averli a portata di mano, per quando stiamo picciusi.