Marcello Buttazzo, E l'alba?

13-12-2016

Sostanza reale e sostanza sognata, di Massimo Grecuccio 

In E l’alba? (Manni, 2015), come negli altri suoi libri a questo precedenti, Marcello Buttazzo sminuzza i versi. La frantumazione dei versi spezzetta con grande frequenza l’unità logica delle frasi.Immagino, in primo luogo, un lettore propenso a saltare la pausa che l’andare a capo indica; così che, nella lettura (silenziosa o ad alta voce), a passi brevi e senza sosta, un verso insegue in maniera svelta il successivo, fino al punto. Le manciate di frasi che in una poesia si susseguono (ogni componimento di Buttazzo raramente travalica la pagina), lette-pronunciate così di corsa, accorciano un poco il respiro. Se, invece, il lettore fa la pausa a fine verso, le continue pause danno un ritmo sincopato.

Ogni volta che parliamo, con tutte le modalità e le sfumature possibili, il ritmo del respiro viene alterato. In E l’alba? il dispositivo poetico,però (prima e al di là della sostanza?), mi sembra che invitiall’alterazione. I versi sono quasi tutti sotto la soglia delle dieci sillabe e solo raramente si distendono oltre. L’effetto: un vago senso di affanno, più o meno lieve, si dispiega con le parole; poche -i versi più lunghi -le oasi.

Dai versi di E l’alba? emerge la visione di un universo poetico scabro. Quello che c’è non è mai un ornamento, ma è funzionale all’etica del discorso. Marcello Buttazzo non costruisce enigmi; la sua reticenza, il suo parlare per sottrazione, la sua costruzione di un mondo depurato e con pochi elementi (“l’estrema pulizia”, come ha puntualmente scritto Vito Antonio Conte nell’introduzione) ha (così mi sembra) un nucleo fondante, inestricabile, di dolore placato e amore sempre vivo (fede, forse si potrebbe chiamare). La fonte del dolore e la foce dell’amore sono lontani? Si intravede, tra i versi, un tentativo di avvicinarli, di farli contigui. Le prime parole che il poeta pronuncia, nella poesia di apertura, sono:A te. La destinazione delle sue parole, dei suoi doni (le “virtù di sogno”, “le ansie palpitanti”, “la carità di suono”) non è scontata, e potrebbe essere duale. E, forse, l’alternativa(che i versi indicano ma non mostrano), dove la “o” non è disgiuntiva ma inclusiva, è tra una sostanza reale, e una sostanza sognata.

I primi indizi raccolti sulla soglia di E l’alba?oltre alla donna indicano la luna. La “luna errante/ nascosta dietro coltri che non so”, pur se “timorosa”, distende sull’universo poetico una lucepallida e dorata.L’inizio presenta questi due motivi. La donna e la luna, nessuna delle due mai visibile con nettezza, vagano tra il fondale, gli altri personaggi e il sipario. E sono diversi i segni che rivelano ilfantasma dell’una e il biancore tenue dell’altra. Queste poesie non sono esposte alla luce abbacinante del sole diurno, ma alla luce morbida e riflessa del sole notturno, la luna. Non occorre stabilire con esattezza numerica, nella raccolta, le occorrenze cospicue del corpo celeste a noi più vicino. Queste poesie non arrivano sulla spiaggia dell’alba (la nascita); rimangono immerse nel liquido amniotico lunare. L’alba (poetica) viene più volte evocata, sembra vicina, ma non arriva a realizzarsi compiutamente, mai.

I versi di Buttazzo costruiscono un universo parallelo: intimo, fuori dal tempo, in sé consistente. Questo universo sembra essere un labirinto. In questoluogo si svolge un unico evento: la raccolta, sublimata e compulsiva, dei cocci dispersi di un vaso, che in un tempo passato è stato unico, integro, rotondo. Il presente del filo lirico che attraversa tutte le poesie del libro, con i cocci qui esposti, di quel vaso dà figure vaghe. Tocca all’immaginazione del lettore il compito di ricomporre una qualche temporanea unità. Il futuro, che la ricerca poetica dei frammenti offre al lettore, così mi sembra, è l’impossibilità – consustanziale – di costruire e preservare una memoria; l’impossibilità di custodire la perdita in una copia, mai esatta, di fatti stritolati dal tempo.

C’è un’evoluzione nella successione di poesie della raccolta?La serie è una via crucis, in cui, di stazione in stazione, l’io poetico porta la croce dei desideri, delle emozioni, dei patimenti, tutti immobilizzati. La collezione di 55 poesieè un’arena in cui il tempo si è fermato. Nel tempo stagnante l’io considera la “scorza dura” delle ferite; e il desiderio, anche se l’amore tace, permane, sublimato. L’esito della via crucis, la resurrezione, assume qui due valori: uno è la camera di decompressione dal dolore; l’altro è la costruzione, sempre in fieri e mai conclusa, di un altare per officiare la poesia. Tale celebrazione è una messa laica, è un rito che coincide, così e semplicemente, con il fare poesia (un fare fare!).

Tra le persone, non molte, che compaiono in questi versi, due si distinguono con un’apparizione meno fugace. Una è la madre, per cui il poeta ha parole commoventi di pietà filiale. L’altra è un bambino, l’unico a essere chiamato con nome (è anche nella dedica del libro, che recita: Al piccolo Federico). Anche qui due poli. Una doppia polarità, che è sia un avanzamento (un andare oltre il vicolo cieco in cui vive l’io poetico ferito) che una regressione (un ritorno all’infanzia, all’inizio).

Marcello Buttazzo popola le sue metafore di una ricca flora (soprattutto) e di una variegata fauna. È cosi anche in questa raccolta; anche se, qui,una più elevata densità di scrittura ha ridotto il lussureggiante della flora e la varietà della fauna. Più che di ricostruire in versi la realtà, mi pare ci sia l’intento, di fornirne una versione che meglio faccia risaltare la realtà interiore dell’io poetico.In questi versi dovrebbe abitare un urlo (così credo). Marcello Buttazzo, con estremo decoro poetico, all’urlo ha messo la sordina. Le parole, anche quelle preziose ereditate dalla tradizione poetica, hanno sempre un’intonazione (della scrittura) pacata; il ritmo (le rime, le allitterazioni, le assonanze) che imprime ai versi è con pudore; i fili della trama, in un ordito poco ostentato, hanno la preziosità dell’ordinario. Questa unità etica-estetica(“tutt’un’esistenza metabolizzata e sublimata nella bellezza”, ancora V. A. Conte nell’introduzione) è una musica da camera, che non ambisce a sopraffare il lettore; il lettore, in maniera estremamente gentile, viene avvolto con una nuvola di partecipazione emotiva calma (con accanto, però, la nota di affanno di cui ho detto all’inizio).

E l’alba? è l’ennesima riproposizione del racconto di Orfeo e Euridice. In quel mito, il canto e l’amore sono indissolubilmente intrecciati. L’enigma della trasgressione di Orfeo della semplice regola di Proserpina (Non voltarti per guardare Euridice prima di aver varcato i confini del regno dei morti), nella varietà dei commenti, converge sempre verso la trasformazione dell’amore perduto in canto dell’amore perduto. La perdita, la fonte inestinguibile del canto. E l’alba? costituisce di ciò una prova letteraria preziosa.