Marco Innocenti, Ladri di stelle

03-06-2005

Assaggi di letture: Ladri di stelle


Il suono dei cellulari moltiplicato per il numero dei passeggeri, me escluso. Nessuna ragazza che mi aspettasse alla stazione. E il riscaldamento di casa guasto senza possibilità di farlo riparare: era sabato sera. Altro che straniero. Quello che vedevo riflesso sul finestrino era un alieno sperduto e infreddolito come un pulcino, piovuto sulla terra come un chicco di grandine.
Un alieno. Perché no? pensai. Forse i miei genitori sono genitori adottivi. Forse mi hanno trovato mezzo morto di paura in aperta campagna e non se la sono sentita di lasciarmi sotto un cavolo. Quando erano giovani, del resto, avevano l’abitudine di comprare la frutta e la verdura in campagna, appena fuori Pisa. Dal produttore al consumatore.
Mia madre aveva la fissa dei cibi genuini, in largo anticipo sui pesticidi, sulla mucca pazza e sul pollo agli anabolizzanti. Seguiva la vecchia contadina zoppa per i campi e le diceva: «Mi prenda un po’ d’insalata, mi colga qualche zucchino. Anche quei pomodori, guardi…»
La frutta e la verdura da acquistare non le venivano in mente tutte insieme, ma una dopo l’altra, senza alcun ordine logico. Progressivamente ma implacabilmente, Mamma Tarantini elencava gli ingredienti del suo minestrone ideale, costringendo la contadina a ritornare più volte sui suoi passi per accontentarla. Era capace di andare avanti per un’ora intera. La sua era una missione sacra. Crescere i figli sani.
Mio padre, un uomo piccolo con capelli bianchissimi e occhi azzurri sgranati da bambino mai cresciuto, la seguiva riluttante. Le trotterellava a un paio di metri di distanza e ogni tanto sbuffava, per dimostrarle che la sua pazienza era al limite. Normalmente un uomo esprime il proprio dissenso in modi più espliciti. Brontola. Alza la voce. Insomma, s’incazza. Papà Tarantini invece sbuffava come un treno in salita.


Mentre rivivevo quello scorcio d’infanzia, che non avevo mai capito se fosse stata felice o meno, mi venne un’illuminazione. Forse l’alieno non ero io ma loro due, papà e mamma. Adottato da due genitori alieni, il padre locomotiva e la ecomadre. Questa ipotesi non era affatto da scartare. Avrebbe spiegato molte cose.
Soddisfatto della mia conclusione, che mi sembrava poco meno che geniale, mi alzai, chiesi permesso alla numero 67 e recuperai il mio impermeabile nero. Niente da dire. Proprio un impermeabile con tutte le cicatrici al posto giusto. Il colletto consumato. Le maniche sfilacciate. Il nero sbiadito dal tempo. Indossandolo, riacquistai la mia sicurezza come se in quella taglia enorme, la 52 mentre sarebbe andata meglio la 48, mi sentissi al sicuro dalle insidie del mondo.
Ho sempre avuto bisogno di non appartenere. Di sentirmi escluso dal branco, invece che di farne parte. Quell’impermeabile, così essenziale e schivo, mi rassicurava sulla diversità tra me e il resto del mondo.
Bene, pensai. Le cose, a parte le ragazze, il riscaldamento e i cellulari, non mi andavano poi così male. Avevo ricevuto un aumento di stipendio dall’agenzia di pubblicità per cui lavoravo come copywriter, la Stellone Marketing & Communication.