Marco Pivato, A poca voce

28-01-2009

Non puoi toccare niente senza cambiarlo, di Lorella Barlaam

È appena uscito per Manni Editori A poca voce, primo libro di poesie di Marco Pivato. Riminese, Pivato è chimico farmaceutico e giornalista scientifico, collaboratore di “La Stampa”. La prefazione è di Sergio Zavoli. «Sergio mi ha spinto a pubblicare», racconta Pivato. «mi ha chiesto di alleggerire il testo, e mi ha fornito la chiave per parlare d’amore e di scienza in versi. Il poeta Ennio Cavalli, invece, mi ha insegnato di cosa parliamo quando parliamo di poesia. Le reazioni che suscita il libro adesso sono una sorpresa e una conferma: la poesia non ha messaggi né destinatari, è uno specchio sull’intimo di ciascuno dei lettori». Perché A poca voce? «Perché mi piace il “tra le righe”, le cose come l’ombra, come la nebbia, le cose che stanno tra. Poi perché in A poca voce si parla d’amore, e spesso nell’amore le confessioni si fanno a poca voce, vicini l’uno all’altro». Un poemetto che segue il ritmo ciclico delle stagioni: «L’amore è dinamico, si trasforma giorno dopo giorno mentre si orbita l’uno attorno all’altro; è poeticamente descritto dalla Legge di esclusione di Pauli: nello stesso orbitale coesistono due elettroni alla volta e solo due». Nel finale del libro c’è questa richiesta alla donna amata: “reggi per me la mia paura”. «È una dichiarazione d’amore. Con l’affidarsi il cerchio si chiude e l’inseguimento ricomincia, comincia una stagione nuova. Non c’è mai infatti pieno possesso dell’altro, ed è una sensazione da Principio di indeterminazione di Heisemberg: non puoi toccare niente senza cambiarlo. Per questo non si esce mai indenni da un rapporto». Il linguaggio delle tue poesie è tessuto di termini scientifici. «La divisione tra scienza e non scienza è una separazione didattica, serve a fare ordine nelle personali visioni del mondo. Inoltre la scienza ben si adatta alla poesia perché ha in comune il carattere: cerca, s’interroga, e come l’amore regge le proprie certezze sul dubbio». Quali sono i “padri” della tua scrittura? «Mario Luzi, che vedeva la poesia come una continua attesa nel tentativo di ricostruire un universo perduto. Ma la passione per la poesia è iniziata con Neruda, e poi con Pedro Salinas. Dopo gli anni del liceo, su terzine ed esametri, ho scoperto la poesia dei latinoamericani, così spassionata, libera, priva di pudori. Ho detto: “Allora si può dire, si può fare…”. Così mi sono sentito meno presuntuoso e ci ho provato».