Marco Pivato, A poca voce

16-03-2009

Lungo i sorprendenti sentieri della poesia, di Sergio Zavoli 

L’incredibile non muore mai; ebbene, abbiamo appreso che i giovani sono (sebbene di poco) i migliori clienti delle librerie e che i volumi più richiesti riguardano poesia e saggistica. Ugualmente rispettati, dunque, i codici immaginativi e quelli nazionali. Con una distinzione invece assai più netta, che va a toccare la cosiddetta creatività: i giovani poeti pubblicati superano quelli che si dedicano a discipline sociologiche, speculative, di costume, di genere, con un margine di apprezzabile eccellenza per quanti affidano ai loro alambicchi gli ingredienti dell’astratto e dell’umanesimo piuttosto che del concreto e dello scienticismo. Questo sommario preambolo ha lo scopo di segnalare (nella dizione di quattro poeti che si terrà il 29 marzo alle 18, organizzata dalla Biblioteca Gambalunghiana, sotto gli auspici dell’Assessorato alla Cultura) l’assenza del quinto poeta, Marco Pivato, autore di A poca voce che rientra nella specie più ardua del poetare (avendo per tastiera espressiva il linguaggio qua e là esplicito e sorprendente proprio della scienza) insieme con quella di Umberto Piersanti, Ennio Cavalli, Rosita Copioli e del sottoscritto si sarebbe fatta ascoltare da un “tavolo” allestito nell’idea di dedicare un piccolo omaggio ai libri di alcuni poeti viventi, originari, in senso lato, del territorio milanese. Per l’eleganza direi civile, con l’aria che tira, del padre assessore e del bibliotecario, Marco rischiava di restare fuori del tutto dal… certamen, la più esposta e generosa delle prove raccolte dalla direzione di quel grande patrimonio librario della nostra terra. Ma il giovane amico si consoli: avendo già ricevuto un forte riconoscimento da “il Carlino”, su cui racconta l’avventuroso viaggio della produzione libraria, e addirittura poetica, riservatasi dalla scienza, ci è parso quasi dovuto fargli largo al nostro tavolo seppure con questo articolo augurale.
So di non far torto ai suoi versi anteponendo al loro risultato letterario l’avvertenza che si è di fronte a una vocazione iscritta nella poesia non solo per una esercitazione espressiva. Il poemetto, infatti, nasce dal percorso di uno studioso di chimica, al tempo stesso studioso della sua scienza, che pensa il mondo secondo le cognizioni introdotte dai nuovi saperi, bisognosi di un pensiero poeticamente libero e audace, del resto, la velocità impressa alle azioni umane alla comunicazione elettronica ha modificato tutti i rapporti tra la percezione e il reale; con il risultato di avvicinare, non di rado integrandolo, due fondamentali giurisdizioni culturali, quella scientifica e l’altra umanistica. Se queste accelerazioni del “tutt’uno” rimettono insieme categorie tanto lontane tra loro – le stesse, in verità, che l’allegoria della “prima seminagione” aveva già destinato a convivere – se ne ricava che immaginare l’uso dei nuovi saperi non separa più le pertinenze creative cosiddette di genere. Figuriamoci, dunque, se il ricorso a una realtà condivisa dall’introspezione e dalla storia non scioglie, come nel caos di Marco Pivato, molti lacci formali, cancellando pregiudizi scolastici, poetiche di maniera, separazioni estetizzanti. Non è dunque, una questione di originalità, di sperimentazioni linguistiche o scorciatoie immaginative. Riprendo le parole del nostro poeta, pronto a rintuzzare, tutt’altro che “a poca voce”, le obiezioni più banali e bigotte: «Prendiamo la dopamina: un elemento inedito per la poesia, ma è la molecola del movimento e della mimica facciale, delle allucinazioni, dell’amore, un neurotrasmettitore responsabile di fondamentali funzioni organiche. Perché questi elementi dovrebbero essere meno evocativi di un fiore, di una lucciola, di una passione? […] Una distinzione equivoca, invocata dagli allergici alla scienza, che ritengono la chimica e la fisica “visioni” gelide del mondo, per cattiva disposizione verso tutto ciò che non è familiare».
Ma poi, quali parole sono nate per essere poetiche? Da Esiodo a oggi, quante reti abbiamo portato a riva con l’idea di trovarvi i segreti degli dei e del cosmo, e da esse scrollandole, sono cadute bianche e vuote conchiglie? Non bisogna cercare ostinate contiguità o distanze tra scienza e poesia dopo che questo rapporto ha già avuto tanti precursori: nel mito antropomorfo dei greci, positivista del marxismo, dinamico del futurismo, nelle forme più trasgressive e radicali del cubismo, così come nella conversione pressoché universale alla civiltà delle industrie. Una poetica della scienza è passata, anche da noi, attraverso le testimonianze rese al trionfo della macchina, e ne abbiamo segni ovunque. È rimasta famosa la richiesta rivolta a un pittore già allora famoso, il cesenate Alberto Sughi, dal poeta Leonardo Sinisgalli – direttore di “Civiltà delle macchine” – d’un quadro in cui campeggiasse “un’orchidea turgida e color carne”. Né può dirsi di una natura meno provocante la necessità di Montale d’impadronirsi del sapere naturalistico, a cominciare dalla botanica, per certificare le “citazioni” che compaiono nei suoi versi, altrimenti arbitrarie, se non legittimate a far parte, con l’esattezza voluta, della sua poesia.
Marco Pivato non ha idee perentorie, e men che meno ideologiche: sa bene che solo la matematica e la filosofia sono direttamente apparentabili alla scienza, e che poesia e musica possono esserle figlie di secondo letto; ma giustamente pretende che il trasgredire ai formalismi tradizionali sulla separazione dei linguaggi abbia diritto di cittadinanza anche nel suo spazio poetico, senza traumi, trasalimenti, scarti di tono e di stile.
Tant’è che la pur adescante immagine delle risacche lasciateci dal Moraldo felliniano, offerta dai treni, nei paesi (soprattutto di mare) della nostra grande provincia, che partono con un fischio lacerante, trova in Marco, rinviata a chissà quando, una poetica ben piantata dove il treno non serve per partire e tornare, ma per fermarsi dove il sogno ha la possibilità di esistere. È del tutto estraneo, insomma, alla fluidità di una cultura sommariamente immaginativa, che Rimini non a caso identifica nella “stagione”, come vengono chiamati i tre mesi estivi, i soli che sembrano contare per un anno intero e, spesso, per l’intera esistenza.
I versi d’amore di Marco, di una struggente e persino ribalda sincerità, si inseguono al di fuori di edificazioni sentimentali, finché non splenda la prima qualità di cui è insignito l’amore, cioè la ricerca e la conoscenza, la percezione e il turbino del suo strato regale; e qui mi preme non lasciar prevalere l’idea che si tratti di un “canzoniere” dedicato non tanto all’amore, quanto a una alchimistica, combinatoria, innamorante felicità dell’animo e del corpo.
D’altronde, l’oggetto-soggetto di questo reciproco desiderio di “cognizione comunicativa” è la chiave per capire che la donna di Marco, prodigiosamente fanciulla, non è il fattore ablativo, e sperimentale che un malinteso omaggio poetico potrebbe lasciar immaginare. Il poeta, infatti, si mette in gioco senza abusare della parola, anzi usandone le piegature fino a decantare i suoi impulsi estremi: da quelli del sesso a quelli intellettuali, dagli ardimenti e dai dubbi di lui alle consonanze e ai puntigli di lei, messa di fronte alle alterezze e agli sgomenti che la poesia di Marco non le risparmia. È un avvitante, reciproco lavorio di scavo, fisico e interiore, che dà luogo a una disinibita e innocente manifestazione d’amore senza vie traverse, in cerca di tutto quanto promana dalle domande più insidiose: da che cosa nasce, e di che cosa si nutre, quando gemma un amore così esposto e segreto, infantile e sapiente. Perché «questo è il dolore della vita», scrive un altro poeta: «che si può essere felici solo in due!». Ma qui Marco Pivato non mena il can per l’aia: tiene e regola il viaggio poetico al centro della sua affettività mentale, interiore e sensuale, sotto uno zenit laico (psicologico e morale) che denota quel “tutt’uno” da cui siamo partiti, cioè il consistere di una poesia che prende le sue certificazioni fantastiche e concettuali, espressive e morali, dall’universo di cui un poeta si circonda; la cognizione dell’inseparabilità di ogni cosa in cui viva il bisogno di conoscersi, confondersi e compromettersi. E fare poesia, come qui si fa. E penso a Manni che, nella sua linea editoriale, ha incastonato un libro davvero mercuriale. Rimini sarà la prima città a ringraziarlo. Anche se A poca voce si farà sentire più tardi. Peccato, infine, gran peccato che Tonino Guerra stia andando in Russia, dove rimarrà almeno un mese. Non resta che bloccare l’inesausto maestro, a Miramare, mentre s’imbarca per Mosca.