Mari Socrate, Rotulus Pugillaris

09-03-2005

Il fragile rotolo di Mario Socrate, di Giulio Ferroni


La poesia di Mario Socrate si è rivolta con sempre maggiore rigore a guardare il mondo in un nesso di partecipazione appassionata e disillusa distanza: in essa l’amore alla vita, la ricerca di una verità e di un orizzonte «umani»le più irrequiete domande sul male e sul dolore, si impongono con più forte necessità, con più netta evidenza, quanto più tutto è guardato cime da lontano, quanto più l parola riconosce la propria aderenza a un parziale «punto di vista» (Il punto di vista  è del resto il titolo del libro del 1985), quanto più le occorrenze e le situazioni quotidiane si proiettano in una distanza allegorica (Allegorie quotidiane  è poi il titolo del successivo libro, del 1991). Si tratta di una «distanza» sostanziata di passione per la realtà (che non rinnega l’originaria esperienza «neorealistica» né l’«impegno» democratico e civile), ma come attutita, fasciata,  esitante di fronte ai micidiale pericoli di un mondo sempre più decomposto e indecifrabile. Come risulta in modo forse ancora più limpido in questo ultimo libro, il linguaggio è come solcato dal senso della propria fragilità, specchia l’esperienza, segue gli svolgimenti del pensiero, interroga il tempo, la storia, il divino, l’immaginario, ma illuminandoli e limitandoli a partire da una condizione vitrea, trascinandoli nei propri diafani riflessi, come di chi senta continuamente il rischio di frantumarsi e andare in pezzi. Questa immagine di fragilità viene evidenziata ed esaltata in Esergo la prima delle Poesie sparse che sigillano il volume appena pubblicato da Manni, Rotulus pugillaris e altre poesie (pagine 78, euro 10): scritta per Dario Puccini, essa evoca un testo letterario che per il nostro autore assume un valore elettivo e quasi «archetipico», e cioè la novella di Cervantes El licenciado Vidriera. La novella, che Socrate ha tradotto gia «da ragazzo / le notti altre della resistenza», ha come protagonista il personaggio dell’«uomo di vetro» folle saggio la cui follia consisteva nel credere di essere di vetro e che, per il timore di rompersi, dormiva di notte nei pagliai, fasciato di fieno come una bottiglia, mentre di giorno camminava in mezzo alla strada per evitare il rischio di essere colpito da oggetti in caduta dalle case: folle saggio dispensatore di penetranti arguzie, di pungenti aforismi capaci di definire per frammenti le forme e le apparenze della vita contemporanea. Del Licenciadom cervantino il nostro autore condivide l’umor malinconico, la partecipe disillusione, la ricerca di una parola vera nel gran teatro del mondo: confinata nella fragile ed indifesa natura del vetro è la cultura nel suo stesso spessore «umano», la letteratura e la poesia come ricerca di un equilibrio del mondo, la passione per la verità, per la bellezza, per la giustizia. Mario Socrate è il poeta di questa fragilità, di questo pensiero umile ma non «debole», che si dispone in una misura colloquiale e «civile», talvolta come attenuata e dolcemente rallentata, altre volte malinconicamente risentita, fissata in scatti epigrammatici, in cui si possono tra l’altro sentire (proprio per questa colloquialità riflessiva e rarefatta) gli echi, pur tanto diversi ma convergenti dell’ultimo Montale e dell’ultimo Caproni. Prima che nelle Poesie sparse (che peraltro rivelano quella disponibilità al frammento di cui Socrate ha dato varie ragioni, come nel componimento Favola ottimistica, in Allegorie quotidiane), questa poesia si consegna nel più compatto Rotulus pugillaris, titolo ripreso da un trattatello di logica del domenicano Agostino di Dacia, che comporta un essenziale abbassamento di sé e della propria parola, una riduzione del libretto poetico a «rotolo» antico e desueto, piccolo volumen grosso come un pugno, da svolgere e da avvolgere nella sua «logica» minore e frammentaria, ma pur tesa e determinata, rivolta all’essenziale. Nella dialettica tra l’inizio e la fine (che era stata esemplarmente evidenziata nei versi finali del Prologo  di Allegorie quotidiane: «Ora adombrano un prologo / le incompiute rovine, / recitano un inizio / con voce della fine»), la scrittura si pone come un reiterare, ripetere e ricominciare interrogandosi e interrogando i limiti dell’esistere e del dire: Il Pittore (dove si affaccia, come, tra le Poesie sparse, ne Il modello, l’ombra del padre pittore, Carlo Socrate) giustifica paradossalmente l’emergere dell’«astratto» come effetto della «coazione» del pittore «a ripetere sé», a fissare in ogni tratto figurativo l’«acronimo di se stesso». Reiterazione parte dallo schema fiabesco del «Cammina, cammina, cammina» per procedere attraverso gli strati diversi di una «città» dell’io, in una discesa «di sottosuolo in sottosuolo», in un ripetersi di scoperte e di strati che conducono alla fine allo svelamento di un abisso che coincide con il già dato, con il «vacuo» svelarsi dell’io a se stesso.
La Postfazione al Rotulus pugillaris (che precede la conclusione Sul retro) scopre ulteriormente le carte: mostra il senso di continuità, che in questo mondo frantumato, il poeta continua ancora a sentire per i «lasciti» dell’«antico greco e del consanguineo latino», per i più amanti eroi di Omero e di Virgilio, aprendo poi uno squarcio sulle «discese agli inferi» dell’Odissea e dell’Eneide e considerando il valore delle costruzioni dei regni dell’aldilà tracciate dalla mente umana. Al vertice di queste costruzioni si ritrova quella di Dante, con la forza ineguagliata della sua terzina, il cui movimento sempre ritornante intona «in flussi e riflussi di risacca inesausta del mare», identificando quel fantasticato aldilà con «quanto più si lega alla nostra quotidianità». Questo omaggio a Dante è un omaggio alla forza vitale della sua poesia, alla sua capacità di dire il mondo, alla «verità» concreta che si cela entro quel suo universo così lontano dal nostro, ma che nella sua indomita energia sa ancora rivelarci questa «nostra quotidianità», così fragile e indifesa, così esposta ai rovesci e alle disgregazioni di una storia che ha perso ogni direzione e forse ogni senso. Per Mario Socrate e per noi sono ancora quei grandi «lasciti» a sostenere la fragile e minacciata parola contemporanea: proprio Dante, con i «flussi e riflussi» della sua poesia, con tutto ciò che essa trasporta, significa, lacera, conquista, ci offre ancora come una corazza e una difesa rispetto ai disastri del mondo, protegge e fascia il corpo vitreo del nostro licenciado Vidriera, garantisce la limpidità del suo sguardo, la civiltà della sua parola, la misura critica del suo pensiero, il suo procedere con «acuzie e detti / di cristallina materia» al centro delle strade intasate della comunicazione contemporanea, guardandosi da ciò che in esse cade e precipita.