Racconto e memoria, di Maurizio Nocera
Prigioniero numero 50860 è il titolo del libro di Maria Acierno che la Manni editore ha editato nel dicembre 2009. È dedicato alla «memoria dei fratelli Francesco e Cosimo» ed è suddiviso in quattro parti più un’appendice, che riguarda strettamente la biografia del militare prigioniero personaggio della memoria. Di che cosa si tratta lo dice la stessa autrice in quarta di copertina, laddove scrive: «In queste pagine troviamo la testimonianza di un sopravvissuto al Lager di Dortmund, raccolta con rispetto e amore da un’autrice molto coinvolta, per restituire alla Storia verità e senso di partecipazione. E anche per comunicare il significato del dolore e la consapevolezza della fine durante la deportazione e la segregazione, in cui resta sempre forte il “bisogno” di vita e libertà interiore».
Quando si scrive un testo di memorialistica, il terreno sul quale si cammina non sempre è facile e lineare perché spesso, si corre il rischio di scivolare o in estensioni o in riduzioni degli accadimenti. Per questo, a volte, alcuni critici non danno importanza a questo tipo di testi e, secondo me, sbagliano. Sbagliano perché non riescono a leggere quanto di più autentico la coscienza riesce ad esternare anche attraverso il solo ricordo di fatti accaduti. Sì, è vero, può accadere che un episodio venga slargato, oppure compresso all’interno di un contesto narrativo, ma questo non incide poi tanto, almeno per me, che guardo alla complessità narrativa della vicenda umana.
La Acierno, nello scrivere il suo Prigioniero numero 50860 è stata attenta a raccogliere «la testimonianza [di un] militare italiano (nato nel Molise) che, durante il conflitto della Seconda guerra mondiale, trovandosi in Grecia, presso il Comando italiano di Làrissa in qualità di sergente, all’indomani dell’8 settembre 1943, fu preso prigioniero militare del Terzo Reich, fu condannato ai lavori forzati nel campo di concentramento “M.-Stammalager VI D” di Dortmund, col numero 50860. Liberato dalle truppe alleate nell’aprile 1945, nel settembre dello stesso anno finalmente fece ritorno a casa. Alla fine della sua lunga esistenza (2007) decise di raccontare la sua terribile esperienza, che aveva taciuto per più di sessanta anni».
L’autrice afferma che è stata lei «a raccogliere e a ricostruire i frammenti della testimonianza. Per non dimenticare». Con ciò ella ha fatto opera meritoria, perché è riuscita a darci un racconto palpitante di quella che è stata la vita di questo militare molisano (Cosimo) prigioniero nei lager nazisti con quel famigerato numero a noi ormai noto. Non solo, altra operazione narrativa interessante del libro è quella di intercalare il racconto del sergente Cosimo con passi letterari o politici attraverso una serie di riferimenti e paragoni come, ad esempio, è il caso di p. 11 col riferimento ai Promessi Sposi del Manzoni. Ma di citazioni nel corpo del libro ce ne sono diverse, tra cui quelle di Mussolini, Badoglio, Ernesto Ragionieri, Primo Levi, Elio Vittorini, Wladyslaw Szpilman, Jacques Le Goff, ed Elie Viesel. Per evidenziare i differenti piani della narrazione, la Acierno si è servita di tre modi di scrittura: ha usato il carattere tondo corpo 11 per il racconto del prigioniero; il carattere quando tondo quando corsivo con corpo 10 per i riferimenti ad altre opere letterarie o politiche; il carattere corsivo corpo 11 per le sue considerazioni personali. Alla fine esce fuori una narrazione leggibilissima, anche se, come sempre accade in questi casi di letture di situazioni in cui domina la sofferenza, le torture psico-fisiche e la negazione delle libertà individuali, la mente porta spesso il lettore a riflettere sulle non poche brutture che ancora esistono al mondo. Ma poi, in fondo, questo era l’obiettivo della Acierno, farci conoscere le tribolazioni del militare prigioniero nei lager nazisti. E c’è riuscita egregiamente.
Sono tante le pagine memorabili del libro, ma io mi porto impresso, come chiodo nella coscienza, una riflessione del prigioniero, che continuamente mi si reitera. Questo: «Stavamo per uscire dall’inverno 1944. / Ci accorgemmo della primavera quando vedemmo rinverdire la campagna e spuntare sugli alberi le prime gemme. La neve andava sciogliendosi e il vento rimescolava continuamente pioggia e fango. La vita continuava con le umiliazioni quotidiane e con i ricatti. Le punizioni accadevano per i più banali motivi, affidate all’arbitrio di qualsiasi SS del campo. Non riuscii, neanche per un giorno, a liberarmi della sensazione di paura che mi prendeva alla bocca dello stomaco. Sarei potuto cadere sotto il fuoco del mitra per qualche imprevedibile errore, per una parola di troppo o per un gesto mal interpretato» (p. 86).
Semplicemente terrificante. Ma le pagine di sconvolgente terrore sono tante. Occorre leggerle e rileggerle perché, come scrive la Acierno, «non bisogna dimenticare».
Bella e poetica l’idea di iniziare le quattro sezioni letterarie con una lirica di Giuseppe Ungaretti.