Maria Corti, La leggenda di domani

01-05-2007

Da uno studio del Salento il rapporto che lega la figura umana all'ambiente, di Giuseppe Amoroso

Scritto dopo il 1945 e rimasto nel cassetto – come si legge nella Premessa di Cesare Segre –, compare ora uno dei primi testi narrativi di Maria Corti, La leggenda di domani. Ambientata lungo la costa del Salento, fra Otranto e Santa Maria di Leuca, la storia della giovanissima Paola, fuggita dal convento di S. Fortunata e accolta nella casa del pescatore Oronzo, si snoda come su un nastro lento che registra senza scosse ciò che accade («i fatti del mondo vecchi e nuovi, si somigliano tutti») secondo un ritmo naturale, in ascolto dei suoni, delle vibrazioni delle cose, delle sollecitazioni e delle voci di uomini nei quali «pensieri e tramonto non si distinguono entro di loro».
L’andamento volutamente disadorno e prosastico oscilla, con qualche nota di scarto, fra cronaca nuda e partecipata adesione al colore locale: ne vien fuori una specie di inedito bozzettismo che chiude l’introspezione in una misura vivace, toccata da sorprendenti e inattesi accenti in grado di superare l’ingombrante deriva dei dettagli propria della temperatura neorealistica alla quale si affida la compagine del libro.
Portata a folgorare un carattere, l’autrice punta sul rapporto che lega la figura umana all’ambiente (ad apertura ecco la protagonista che chiede alla furia del vento di calmarsi) per attingere cifre psicologiche definitive, lapidarie, lontane dall’astrazione sempre in agguato quando un personaggio si confronta con la potenza della natura. Questa disposizione a guardare la realtà favorisce una sorta di costruzione binaria del breve romanzo: da un lato, i personaggi concreti, attivi nell’ambito delle loro vicende che il tempo presente sembra dislocare in uno spazio infinito; dall’altro, il parallelo e coperto percorso della Corti che li solleva dalle pur opprimenti contingenze per osservarli in mosse anomale, in lievi obliquità di atteggiamenti, di parole incantate, gesti ieratici, e per interpretarne le azioni come un oggetto di studio e di stupore.
Le scene si immobilizzano, soverchiate da avvenimenti «invisibili»; la campagna è calcinata dal sole, mentre le sere sono strette nel «silenzio del cielo». Solo un palpito di strana vita arriva dal mare che batte contro le sponde «come uno che si divincoli da una colpa» e dai morti che vanno per lontani sentieri «a non più udire il rumore della loro morte». Nella magia e nella concretezza quotidiana passano gli anni. Paola si integra nell’operosità, nelle gioie e nei dolori della famiglia che la ospita, non pensa alla sua lontana terra d’origine e ascolta racconti di tempi remoti (la leggenda di santa Cesarea, l’assedio di Otranto).
Ma quando dal Nord giunge un ingegnere incaricato di costruire strade sull’altopiano, allora «fissa la linea incolore dell’orizzonte, la linea dell’ignoto che ciascuno attraversa secondo le possibilità della sua fantasia». Paola apparve diversa: «una cosa estranea le si è incastrata nell’anima».
La pagina si fa un po’ più leggera in un diffuso canto, i modi parchi prendono un respiro più lungo, un riflesso di cose che si spostano e non sono più lì, nel punto giusto. Muta qualcosa intorno, l’evidenza rincorre un suo mistero, l’inquietudine entra nella casa. L’amore per Paola che scopre nelle parole usate una «salvezza impreveduta». Intanto la memoria corre a un’altra leggenda prima che giunga l’ora di partire.
Il paesaggio-spettacolo diviene oggetto di riflessione («con le stelle va una falce di luna, molto dura il loro viaggio e non sanno di essere così lontane. La mezzanotte è passata; perché tante notti furono sprecate?») e sembra spegnersi per Paola pronta per un nuovo orizzonte. In quell’estremo lembo di terra, dove la donna ha trascorso la sua giovinezza, verrà un’altra alba su un mare «immobile».