Maria Grazia Maiorino, Di marmo e d'aria

01-04-2006

Il dialogo, di Germana Duca Ruggeri

Metà bellunese metà melfitana, giunta adolescente ad Ancona, Maria Grazia Maiorino, accanto a preziosi riconoscimenti e all’attenzione ricevuta per saggi, racconti, raccolte di versi e haiku – E ho trovato la rosa gialla (1994), Viaggio in Carso (1999), Dare la mano a un albero (2003) – colloca ora un elegante canzoniere, Di marmo e d’aria (Manni Editori, 2005; pgg. 87, euro 10). Il titolo, che intesta la prima sezione, si estende come cifra ermeneutica anche alle due successive (Taccuino bellunese, Figure), circolando l’ossimoro morte-vita ovunque in queste pagine. Il libro infatti si fonda su uno dei momenti cruciali dell’accadere psichico, quello della separazione, della perdita, della nostalgia; esperienze complesse, eppure esprimibili se ci si ripara, come fa Maria Grazia, nel firmamento della poesia d’amore, ‘occasione’ di rinascita interiore, definitiva accoglienza dell’altro. Poesia d’amore - e di Amore - va da sé, in senso lato: affinità artistiche e spirituali, delicato attaccamento alla casa, agli oggetti, agli animali (specie al cane Alice, umanissima pittura di Bonnard). Insomma prossimità alla natura, nel sentimento di ogni albero e fiore, nel continuo legarsi della terra al cielo, fra scorci marini e urbani, giardini, sentieri; contemplazione di ogni dettaglio: “i botton d’oro sui cigli delle strade così regalmente trapunti”, “i gelsi lungo il crinale”, “i rami delle tamerici”, “una mela granata rimasta sul ramo”, “fili garze carte ondulate reti / buste scontrini biglietti viola”, “e i corbezzoli da indovinare / rosso misto a gocce di sole / minuscole coppe di marmo”. Paragonabile a una suite in tre tempi, Di marmo e d’aria, immerso nel ritmo degli assoli inseguiti dal basso continuo, sembra derivare direttamente da quella “fluidità fantasmagorica di coscienza” di cui ebbe a scrivere Ruffilli per Viaggio in Carso, parimenti ricco di “iterazioni e divaricazioni di specie musicale”. A ben guardare, tale fluidità non solo ora rispecchia gli aspetti transeunti del vivere, ma diviene mezzo per transitare da una situazione all’altra, spinta a fare, ad abbandonare idee fisse - di scoramento - per riconoscersi in qualcosa, in qualcuno: “Come turgide lacrime cadute / da un corpo mutilato rametti / foglie scomposta armonia / di anni fragile vita vegetale / ti raccolgo e ti do nuova terra / e mi riconosco in ogni esilio”. L’amarezza non è irreversibile. Per rianimare la vitalità basta un richiamo, una domanda: “Che faresti al posto mio stasera?” Gli interrogativi dell’autrice spesso somigliano a quelli dei bambini per la sincerità e lo spontaneo bisogno di sapere che punta al cuore dei misteri: <<che cosa resta di noi / nel giardino dei morti?”, “come si fa a cadere nel buio / fuori dalle tue braccia?”, “e quaggiù – mi chiedo – chi rimane?” Le risposte non sono approdi comodi, ma tappe di un percorso ulteriore, di un essere in cammino: fino a Belluno, alveo materno dove, nella “memoria bucata” di una vecchia, “il nome di Sarina brilla / improvviso al sole come un frutto”. Fino al ricongiungimento col padre, costruttore di aquiloni, ospite inatteso, sigillo del libro: “padre da dove ritorni / a mischiare farina e colori / a incollare tenere ossa di carne / a mettermi nelle mani quel filo / che cerco ancora di non farmi strappare?”
Ma torniamo al principio, a Paolo - “Mio guerriero di marmo e d’aria” -, mèta d’amore su cui la poetessa trasferisce ogni energia narcisistica e creativa: “quando ti lasciai per andare / a ricevere un premio in un’altra città / all’improvviso eri là tu nella voce allegra / di una giovane attrice nella mia gioia sorpresa / come non l’avessi scritta io la poesia e non fosse lei / ma te che abbracciavo”. L’identità fra sé e l’altro si muta in vero e proprio maternage nella canzone stupenda del distacco, Hermes Orfeo Euridice: “le mani strette davanti alla tomba / sussurrato il patto in un bisbiglio / così nuda - figlio - non ero mai stata (…) // Andavamo tra viburno e lecci / la ginestrella cominciava a fiorire / i cavalli erano lì ad aspettarci / uno bianco e uno biondo / nel grande pianoro / le groppe quiete come colline / madre e figlio cavalcammo fino al cielo / fino all’isola del nostro marinaio”. L’immagine della coppia, strappata al tempo umano dalla forza trasfiguratrice dell’ultimo volo, torna a ricomporsi per via fantasmatica ne Le ninfee di Monet, dove la copia del famoso quadro, realizzata da lui, protegge il sonno di lei: “le ninfee continuano ad apparire / le loro piccole macchie chiare / fioriscono sulle cose perdute / Giverny di tutti i nostri giardini”, attuando un magico equilibrio fra pensiero che rimugina l’assenza e visione compensatrice di ‘cose’ superstiti: “umili oggetti se animati / con quanta fedeltà voi ci seguite / piccole ancore che siete / anelli nel buio campanelle”. Il dialogo, tema tradizionale nella poesia d’amore, (qui all’altezza, specie nei moduli anaforici e iterativi, del recente Tema dell’addio di Milo De Angelis; oppure accostabile, per certe fini profondità, a Daria Menicanti di Ultimo quarto) avviene fra un io scoperchiato e un tu silente. Su tale divaricazione si infrangono i tentativi di rivivere una pienezza, un “insieme”, sino all’affiorare di un intenso desiderio di rigenerazione - “Cerco un utero per rinascere / incapsulata nella mia ombra” -, da attuare di preferenza, si direbbe, nel ventre accogliente della scrittura. Per ripetere ogni nuovo giorno la nascita di un nuovo verso, liberando l’immaginazione: <<direttamente scrivere a un poeta / anche se il poeta si chiama Giacomo Leopardi e finora / non avevamo osato pensarlo>>. Poesia e Amore, così inafferrabili, grumi di aria che presto evaporano, possono perciò trasformarsi in forza - (La forza è solo pena / costretta in disciplina - / fino a che i pesi pendano), dice Emily Dickinson sul ciglio del libro - e imprimersi sulla carta. In pagine ora esatte e irrevocabili come lapidi di marmo – “Io e te Alice / un’arca di Noè / dopo il diluvio” -, ora abitate da un crescendo visionario e favoloso, nell’assaporamento quasi fisiologico delle parole, raccolte e combinate una all’altra come ciottoli di fiume. Simili al covolà, la pavimentazione realizzata coi sassi del Piave. O al géscol, incanto infantile che, come l’aquilone, vince sul dolore di Maria Grazia adulta e la riconcilia con la realtà, spazio-tempo da custodire, dettaglio da salvare.