Maria Grazia Maiorino, Di marmo e d'aria

12-05-2006

Di marmo e d'aria è il rimpianto dell'amore, di Lucilla Niccolini

E’  la musicalità che ti prende, prima: la musicalità del verso piano, affollato di cose e di natura, di colori. Poi, ti sale, a ogni pagina, un nodo in gola, che ricacci per pudore e, che diavolo, per allergia alla retorica. Eppure l’emozione è lì, stranissima se conosci lei, Maria Grazia Maiorino, severa e scabra come la sua terra, il Bellunese, affacciato sulle Dolomiti. Tanti anni ha lavorato ad Ancona, che ormai ci piace considerarla un’anconetana (è dubbio che ne sia contenta), e del carattere dei nostri ha la ritrosia guerriera, quel laconico ritegno che la rende rara interlocutrice e intellettuale controtendenza. Ma i poeti veri, di solito, sono così. Affidano alle loro poesie, che non sempre amano leggere in pubblico (ma neppure amano che siano lette da altri, fini dicitori), il nocciolo della loro commozione, e delle loro avventure emozionali. Pregevole già in tutte le sue sortite, la Maiorino raggiunge in questa raccolta una vetta della sua storia, dalla quale ci guarda giù con distacco non arrogante, umano, commosso e controllato. La perdita del suo amato, tanti anni e lacrime fa, è motivo e tessuto della raccolta eponima, la prima delle tre (ma riaffiora ovunque). “Di marmo e d’aria”: è questa la consistenza, ossimorica, del suo amore, dello scomparso “suo guerriero”. Un ritorno continuo, il suo, una presenza (“Ho chiamato sorella la tua assenza... ho chiamato sorella la tua distanza”) che intride ogni altra esperienza (malgré lui) e la colora, la giustifica, la salda alla vita di tutti quelli che, leggendo, si sentono consolati tra le lacrime (ah, la catarsi della poesia) di ogni loro diverso/analogo commiato.