Maria Jatosti, Per amore e per odio

01-03-2012

In bilico, di Loredana Magazzeni

In bilico fra due passioni estreme come l’amore e l’odio, sta il romanzo-fiume di Maria Jatosti, che scorre con una portata larga, a rischio tracimazione, ma sempre contenuta dall’intervento dell’intelligenza razionale, a dirimere dubbi, sciogliere nodi di senso. Amore ed odio verso chi e che cosa, si chiederà il lettore, sapendo quanta ambiguità quelle parole-mondo contengano, se amore ed odio di sé, degli altri o di ciò che, da utopia, è passato per molti di noi a sogno collettivo, poi tentativo di cambiare il mondo, e disinganno. Volutamente ibridata e disomogenea, la lingua inseguita da Maria non dà risposte, la lingua che si fa attrito, non scodinzola, non guaisce, sembra scegliersi la libertà di farsi cronaca, monologo, diario di vita, dialogo con l’altro, saggio politico, con uno sguardo acutamente puntato sull’oggi. La lingua che è tutte queste cose ed anche altro, in una estenuazione che non insegue un genere ma si dà la libertà di essere questo ed altro ancora, di dipanare una mappa sentimentale di luoghi, persone e fatti secondo le coordinate di un’energia vitale polimorfa, che dell’immobilità forzata di una malattia fa soglia e centro di gravitazione di un universo ancora vivo e pulsante.
Un lavoro altrettanto concentrico sulla memoria, per piani che si sovrapponevano e ritornavano, facendo saltare ogni coordinata temporale, fu quello compiuto da Dolores Prato in “Giù la piazza non c’è nessuno”, mentre scendeva i gironi infernali della propria infanzia.
Qui Maria usa invece l’arma del taccuino, dell’appunto veloce, frantumando la portata del fiume per tappe e stazioni precise: la Parigi del fratello Virgilio, Roma, Milano, Rapallo, Barcellona, Napoli, Venezia, seguendo “incursioni notturne, al buio, nell’agenda diario aperta sul comodino, appunti tremolanti, indecifrabili al mattino; paginette di block notes, margini di giornale, biglietti del metrò”. Il risultato è un libro che trasuda vitalità e questo amore trasmette con l’entusiasmo di chi ancora vive “tutto d’un fiato”, mettendosi in tasca i giorni belli e i giorni brutti, le cose dette e quelle dimenticate, il prima e il dopo di una vita ogni volta contraddetta e ricominciata, “l’ennesima vita ostinata”.
Una vita raccontata in terza persona, in dialogo con una folla di personaggi anonimi e meno, molte le celebrità viste con occhio irriverente, e poi amici e familiari, ma in particolare in dialogo col fratello pittore, il figlio Marcello, il compagno Paolo. Il guadagno, per il lettore, è quello di una visione critica dei nostri anni, di una società dove il sogno di Maria (e di molti di noi), seppure oggi appannato, frantumato, sotto tono, cova sotto le sue stesse braci.
Voglio avvicinare questo libro a quello di altre donne forti e ostinate come Maria, che hanno voluto, nella maturità della loro vita, lasciare un segno delle passioni forti, passare questo testimone ardente. E penso a “Quartetto per masse e voce sola” di Biancamaria Frabotta, a “La ragazza del secolo scorso” di Rossana Rossanda, a “Duemila anni di felicità” di Maria Antonietta Macciocchi. Come Maria Jatosti, esse ci trasmettono il coraggio di praticare una politica del cuore, rifiutando la separazione arte/vita e facendo del proprio stile il fulcro attorno a cui ruota l’etica della scrittura. Scrive infatti Maria: ”E’ lo stile che libera l’idea e la fa esistere…Dov’erano il rigore, la felicità, l’intelligenza del fare?”. Una domanda che ogni scrittore dovrebbe porsi prima di cominciare.