Marica Larocchi, Rimbaud. Un racconto

05-06-2005

Rimbaud, prodigioso adolescente, di Giovanni Orelli


Il nome di Arthur Rimbaud è quello di un “mostro sacro” beninteso restando nel dipartimento letteratura. Mostro sacro della “modernità”: “Il faut absolument être moderne”, dove per modernità non è da intendere, come qualcuno grossolanamente fa, famigliarità con alcune diavolerie inventate e via via “perfezionate” dalla moderna tecnologia.
Rimbaud nasce nel 1854, a Charleville e muore nel ’91. È “enfant prodige” della poesia; ancora giovane interromperà il singolarissimo rapporto con le muse.
Il libro di Marica Larocchi, Rimbaud ha come sottotitolo Un racconto. Più generico di così… Poteva anche intitolarsi Congetture su Rimbaud. La parola racconto non vuole contaminare l’aura di mistero. Con tutti i suoi perché.
Pagina 86: “Perché mai Rimbaud aveva smesso di scrivere? Perché aveva deposto la penna e sepolto in fretta ambizione, genio e conquiste? Insomma: perché aveva ucciso quel suo prodigioso bambino? L’Opera straordinaria in cui aveva profuso ogni forza e fede? L’acme della Visione?”. Certe risposte non sono risposte ma ulteriori domande nel solco di precedenti domande:
Negli ultimi mesi di vita, Rimbaud manifestò una forma di repulsione violenta per qualsiasi lettura contenesse poesie e per chiunque lo interpellasse sul suo passato di poeta. Se Isabelle gli leggeva un romanzo, era obbligata a ometterne ogni citazione in versi, per non suscitare il suo disagio. Tuttavia, una sera si fece ardita: osò chiedergli cosa significasse per lui la poesia. Calmato dall’infuso d’oppio, lui spalancò gli occhi stanchi dall’iride sempre smagliante, e, sarei impazzito, le disse, se avessi continuato a scrivere, perché la poesia era diventata per me il più terribile dei mali.


Altri interrogativi, coincidenze, fanno di questo “racconto” di Marica Larocchi una sorta di “giallo” pieno di mistero, che l’autrice smorza –se così posso dire– con le parentesi di riflessioni personali, di autobiografia. Certo i frammenti-illuminazioni sulla vicenda umana dell’autore delle Illuminations si impongono. Come quando è descritta, con singolare capacità di “rappresentazione”, la prima visita del “contadino”, di Charleville a Parigi, da Paul Verlaine. Così come quando si parla del misterioso “divorzio” del padre di Rimbaud, “inafferrabile evanescente ectoplasma”.


Se ne era andato senza pentimenti. Mai più un visita, nemmeno uno scritto. Nulla. Silenzio. Si ritirò a Digione, dove si concesse una governante grazie alla discreta pensione elargitagli dall’esercito. Vi morì nel 1878. e la data del decesso desta qualche perplessità, perché è la medesima che si legge in testa alla lettera del 18 novembre redatta dal suo prediletto Arthur dopo la sua difficile traversata del Gottardo. Coincidenza ancor più strana, se si ritiene che sia proprio quello l’anno del congedo definitivo di Rimbaud dalla poesia.


Facciamo un passo indietro: “A Parigi nel 1878 consegnò il manoscritto delle Illuminations al musicista Charles de Sivry, cognato di Paul Verlaine. È l’ultimo riscontro di un suo passaggio nella capitale. Poi del poeta non rimane più nulla. Un mistero. A ventiquattro anni si amputò della poesia, non a diciotto o a venti, come pretende la vulgata… A trentasette, rientrato in Francia dall’Africa, i medici gli amputarono una gamba, ma ormai il carcinoma l’aveva divorato…”.
Il 1878 ha per noi lettori “ticinesi” una risonanza particolare, perché è di quell’anno la splendida lettera del 17 novembre, “aux siens”, da Genova, in cui Rimbaud dà una affascinante descrizione della traversata del san Gottardo coperto da alta neve (vedi le pp. 313-315 delle Oeuvres complètes nella Bibl. De la Pléiade).
Marica Larocchi legge bene tra le pieghe di Rimbaud (il suo sodalizio con Verlaine fu sconvolgente in tutti i sensi) anche perché l’ha voltato in italiano per gli Oscar Mondadori, mentre per l’edizione SE, Milano 2004 ha pubblicato Nuovi versi; con un’appendice di lettere e documenti. I documenti sono per lo più foto dell’eterno adolescente Rimbaud e della sua cerchia, Verlaine e altri. Dirà Marica Larocchi: “Tradurre i Vers Nouveaux di Arthur Rimbaud può costituire l’equivalente di una sfida sconfinante nell’autolesionismo più sconsiderato, arrogante”.
Una prova è presto data dalla traduttrice che, partendo dalla voce (nota musicale dominante) oi di soif (sete) se lo vede disseminare, quel suono oi: donde moi, toi, choix, voir, devoir… o, in Larme, oiseaux, villageoises, bois, noisetiers, boire, Oise, voix, soir, noirs… Come si fa a tradurre?