Marina Corradi, Notturne stanze

04-04-2006

La “notte” di Marina Corradi e i ricordi di Giorgio Leoni, di Nicola Vacca


La XXIV edizione del Premio nazionale di poesia 2005 Guido Gozzano è stata vinta da Giorgio Leoni e Marina Corradi, con i loro libri entrambi pubblicati da Manni. Questo fatto testimonia come la casa editrice salentina stia diventando una realtà imprescindibile del nostro mercato editoriale, che rivolge l'attenzione a testi e autori di notevole rilievo. È il caso dei due poeti che hanno ottenuto l’attenzione delle Giuria del Premio Gozzano. In Notturne stanze Marina Corradi, alla sua prima pubblicazione, esplora lo straordinario fascino dell’oscurità notturna per cogliere nel mistero del suo linguaggio tenebroso tutte le implicazioni del divenire. Qui l’uomo che pensa è costretto a confrontarsi per dare risposta a quelle interrogazioni cosmiche senza le quali la vita non avrebbe alcun senso.
Versi di una trasparenza efficace che si presentano come frammenti da modellare di fronte alla verità della poesia che cerca nell’esistente la materia prima per plasmare i sentimenti troppo spesso calpestati da un’indifferente afasia delle passioni: «È vero che viviamo così distanti, / tra l’ultima parola data / e l’incedere del passo; / i silenzi sono lunghe assenze / non pause necessarie / al mestiere di appaiarsi: / che cosa mi risparmia / tutto questo pensarti? / –Da noi l’amore si motteggia–».
Attilio Mauro Caproni nella postfazione scrive: «Ma il fascino e l’efficacia di questo libro nascono dalla straordinaria forza plastica dei testi proposti e che appaiono indimenticabili nella loro verità e nella loro profondità». Non si può chiedere nient’altro a un poeta.
Di diverso registro la poesia di Giorgio Leoni. In Giochi con acini succhiati il poeta romano percorre il filo di una memoria generazionale che incontra il cammino di una storia fatta di eventi, persone e contesti.
La vita è una lezione di umanità che apprendiamo dal nostro passato. Dalla rievocazione della sua memoria emerge quella nostalgia riflessiva che conduce il pensiero sulla vita di un ragionevole stato di alterazione che si richiama alla malinconia soffusa ma non incombente.
Il contesto è la regione Marche e la sua società, che è mutata travolgendo villani e i mezzadri, i padroni e i piccoli nobili, ricollocati tutti in un mondo in cui valori di un tempo hanno senso.
È un libro, questo di Leoni, sui relitti di un’epoca, la prima metà del Novecento, e sulle ortiche e gli spettri che crescono su essa, in orti in cui si coltivano ombre.
«Il moto non è fuori di noi / è un’immagine interna che trasponi / dal treno che si muove lentamente. / Siamo noi che partiamo, e la riprova / si deve avere fuori della vista / del rapido che va verso Fabriano / da un albero, magari, che sovrasti / il nostro cielo d’uomini reclusi. / È un invito alla fuga a ore fisse / non importa se a moto rotatorio / come i flutti che riportano a terra / l’affogato. (“Dove credi d’andare / con le tue pertinenze nei bagagli? Non ripeti che ruoli consumati / di destini sociali cui non sfuggi”)».
La poesia di Giorgio Leoni scandisce i ritmi musicali di un tempo passato, ripercorre le dinamiche del vissuto: nel raccontare le vicende di un mondo scomparso si augura che dalla lucida memoria possa nascere una continuità etica che riporta l’esistenza verso un “ideale d’umana fratellanza”. La Storia, almeno per una volta, diventa il luogo dove l’uomo scopre di avere un animo buono.