Mizzau: dai motti di spirito all’inconscio, di Renato Barilli
Le quote “rosa”, cioè della presenza femminile in arte e letteratura, per tutto il secolo scorso sono state assai scarse, anche nell’ambito di movimenti di punta. Per esempio, nelle file del Gruppo 63 si è avuta in sostanza una sola narratrice di valore, Carla Vasio, col suo “L’orizzonte” (1966), cui di recente ha richiamato l’attenzione affiancandogli un saggio, a dire il vero molto divagante proprio rispetto alla neoavanguardia letteraria, “Vita privata di una cultura”. Le cose andarono meglio nella poesia, che nel nostro Paese batte sempre la rivale narrativa, in cui sono emerse Amalia Rosselli, Giulia Niccolai, Patrizia Vicinelli. Se ora veniamo a Marina Mizzau, la vera protagonista del presente discorso, in fondo in quegli anni ’60 lei militava, con grinta e competenza, ma nelle file della critica, quasi confermando la vulgata lectio per cui eravamo tanto bravi a livello critico-teorico, ma molto meno quanto a creazione di testi autonomi. Marina ci diede allora un informato e preciso “Tecniche narrative e romanzo contemporaneo”, in cui, come tutti noi, si precipitava a fare i conti con un membro del Nouveau roman, il movimento che veniva a congiungere lo sperimentalismo della prima metà del secolo con la sua ripresa nella seconda metà. La sua scelta personale si riferiva a Nathalie Sarraute, da cui venivano due proposte magistrali, che una narrativa all’altezza dei tempi dovesse rivolgersi a fare il censimento dei minimi moti di coscienza, dei cosiddetti “tropismi”, del tutto trascurati dalla narrativa ottocentesca. E che inoltre questa minuta analisi corrispondesse a una “sottoconservazione”. Diciamo insomma che, attraverso le sapienti analisi della Mizzau, si delineava un asse di continuità da Virginia Woolf alla Sarraute, un lungo filo alla cui estremità, al momento, sembrava attaccarsi solo l’opera della Vasio con cui ho aperto questa riflessione. Quanto alla nostra Mizzau, in quegli anni allontanava da sé il calice, amaro o accogliente che fosse, preferendo frequentare studi di psicologia a livello scientifico-universitario, militando nel corso allora più avanzato, il DAMS di Bologna. Basta elencare i titoli dei saggi che in questa sua attività accademica ha fatto uscire a scadenze regolare, per poter scorgere, però, in filigrana, un possibile, anzi, naturale, inevitabile esito narrativo: “Prospettive della comunicazione interpersonale”, “Eco e Narciso. Parole e silenzi nel conflitto uomo-donna”, “Ridendo e scherzando. La barzelletta come racconto”, ecc. Insomma, un “sendero luminoso” che implicava una inevitabile discesa in campo come narratrice in prima persona, il che infatti avvenne in progressione, “Come i delfini”, 1988, “I Bambini non volano”, 1992, “Il silenzio dei pesci”, 2004, che fu anche l’occasione per spingermi a rompere gli indugi e a dichiarare la mia piena approvazione per questo suo impegno totale nella veste di una narrazione svolta a tutto campo. Un virtuoso itinerario del genere trova ora il suo coronamento nell’uscita di “Se mi cerchi non ci sono”, e non ci sarà da meravigliarsi se due capofila del lontano, ma sempre risorgente dalle radici Gruppo 63, quali Umberto Eco e Angelo Guglielmi, l’hanno proposta per il Premio Strega. Per fortuna io non voto, essendo il critico inesistente, il che è una fortuna dato che mi troverei in imbarazzo avendo già espresso un voto del tutto virtuale a favore di Covacich. Da brava psicologa, la Mizzau sa bene che la nostra “corrente di coscienza” è piena di associazioni indebite, impertinenti, offensive, in cui giocherelliamo con le parole, le spingiamo a usi perversi, illeciti, che sono poi anche le fonti del comico, delle barzellette, dei motti di spirito, un universo accuratamente analizzato da Freud in una geniale indagine, in cui ha dimostrato la contiguità di questo vasto continente con tutti i sussulti dell’inconscio e della vita onirica. Ovvero, dal futile, di cui si nutrono appunto i giochi di parole, si passa in un istante alle profondità più insondabili dell’inconscio, in un incessante andirivieni. Del resto, ne sapeva qualcosa anche il nostro Pirandello, che stabiliva una quasi invisibile linea di confine tra il comico, o avvertimento del contrario, e l’umorismo, o full immersion nello spirito di contraddizione e di rivolta rispetto a tutte i canoni stabiliti.
Questo ambito di ricerca è così propizio alla causa di ogni sperimentalismo passato, presente e futuro, che Francesco Piccolo, uno dei miei idoli della “terza ondata”, degli alfieri anni ’90, venuti dopo il Gruppo 63, ne ha fatto uno sfruttamento sistematico, conseguendo anche lo Strega dell’anno scorso. Che questo possa essere un buon auspicio anche per la Nostra?
La quale, in questa ultima prova, si mette a suo agio, si procura cioè il fabbisogno, che consiste in una lunga lista di dramatis personae, in modo da applicare quanto un grande critico, lo Auerbach, aveva attribuito alla Woolf, la madrina di tutta questa linea, cioè l’applicazione di una “multipersonal representation of consciousness”. Qui siamo in presenza di un caro estinto che si chiama Leonardo, e ci ha messo molta buona volontà per complicare le cose: doppio matrimonio, figli di vario letto o adottati, due sorelle, e cugini, amici, insomma un bel prisma di rifrazione dei raggi di coscienza, un funerale gremito di sottoconversazioni, di tropismi, anche aberranti rispetto all’occasione presente, fino a far vergognare queste brave persone perché si sorprendono a pensare alla bouillabaisse o al brodetto invece di meditare sul defunto. Il quale però non esce per nulla dall’agone, anzi, sull’inevitabile computer dei nostri giorni ha lasciato una serie di giudizi rivolti a tutti i presenti, e dunque il morto è il primo a intervenire in questo gioco al massacro, o invece no, è una gara di affetti, di tenerezze, di ricordi tra lo svagato e l’evasivo o al contrario il doloroso ricordo che ferisce. Il bello è che in questa selva di rifrazioni ci si mette anche un io, una voce in cui l’autrice stessa si riserva un cantuccio e si mette in gioco al pari di tutti gli altri. Che sono come tanti delfini saltellanti tra le onde, talvolta vengono a galla, ovvero si attaccano a qualche frase fatta, a qualche slogan pubblicitario, ma poi lo trascinano con loro sott’acqua. In definitiva, il titolo stesso di questo lungo racconto, smembrato in mille capitoli, risponde a una simile doppia logica. Siamo infatti di fronte a un rebus enigmistico dato da un gruppo di semicerchi, che però non definiscono la lettera “c”, e dunque la soluzione è appunto “Se mi cerchi non ci sono”, che però, nello stesso tempo, è la migliore definizione del destino, non solo del protagonista Leonardo, ma di Everyman, e aggiungiamo pure, è l’ora di farlo, di Everywoman. Tutti un po’ a galla, ma tutti sotto, a immergerci nel profondo dell’inconscio. Caro Moresco, impara da questa lezione un po’ di pulizia e di semplicità.