Fuori, di Pierino Montini
Un’azione insignificante, quasi abitudinaria. Non dettata da alcuna inclinazione particolare o dalla volontà di compiere un qualcosa al di là della norma. Al contrario, rispetta i canoni della più squisita normalità. Non ha niente di speciale, né per distinguersi dagli altri, né per emergere da loro. È unicamente supportata dalla profonda ragione di fare almeno una cosa non da soli, anche se in tempi ed in luoghi differenti per ragioni facilmente comprensibili a livello geografico e temporale. Tutto ciò ha di peculiare l’essere e non il fare.
Il gesto di innaffiare una rosa si tramuta, così, da gesto personale e del singolo in manifestazione comunitaria e corale. Nasconde simbolicamente, cioè, l’intima inclinazione a prendere parte ad un’azione, che ha l’avvio nel quotidiano, si nutre di esso, ma attesta ben altro. Appunto l’Altro o, meglio, l’Alterità. Senza pretesa alcuna. È una feritoia orientata al futuro. Innervata alla speranza.“È come un salto oltre la casa, cercando vita e felicità altrove” (p. 23).
Innaffiare una rosa è tensione verso una collaborazione di tipo corale, socialmente e comunitariamente valida per tutti. Con tale gesto non esiste ed esiste più il detto “Questa mattina ho innaffiato la mia rosa”, ma si ribadisce con più vigore: “Questa mattina ho innaffiato la rosa”. La rosa che è di noi, perché la mia è la tua, la tua è la sua, la loro è la nostra e la vostra è la nostra. Alla fine è come dire che il mio vaso è il giardino di tutti. La scommessa è: fare “il possibile per essere felici” (p. 15). Tendere alla felicità è prima di tutto responsabilizzarsi della felicità che gli altri si attendono da noi.
Innaffiare una rosa è il messaggio della speranza. Della buona notizia. Data da uomini semplici riguardo ad un gesto semplice, utilizzando uno strumento linguistico altrettanto semplice. Un gesto ed una comunicazione compiuti, per di più, all’inizio di ogni giornata da vivere personalmente, da spendere a garanzia di coloro che non sono te ma sono in te. “Il cuore spinge” (p. 12) e nessuna altra motivazione.
Questo, in sintesi, il messaggio del primo romanzo di Mario Contento, autore di Alberobello, abituato fino ad ora ad imprese letterarie di ben altro genere, per lo più storiche, dedicate, per esempio, alla narrazione della Storia dei Trulli e della gente. Alberobello (Edizioni AIPA 1997) e dei Trulli da favola (Grafischena 2001).
Opere che, tra le altre cose, hanno ricevuto un’adeguata accoglienza sia di pubblico che di critica.
Il titolo Fuori casa, che richiama lontanamente alla memoria il noto testo montaliano Fuori di casa del 1969, racchiude molto più delle indicazioni verso le quali lo scrittore e l’editore hanno voluto, forse un po’ troppo riduttivamente, indirizzare l’attenzione dei lettori, suggerendo il sottotitolo Storie e amori di fine secolo. Probabilmente con ciò hanno inteso soltanto porre in atto la cornice storico-sociale sottesa alla narrazione e suggerire le ampie coordinate familiari-personali, entro le quali si dipanano ricordi e presenze, concretezze ed aspirazioni, delusioni e speranze, assenze ed attese, che in ultima analisi sono la carne ed il sangue con cui sono impastati tutti i personaggi che vivono in modo corale, ma ognuno dal proprio punto di vista e con una propria modularità esperienziale sempre inter-relazionata nell’altrui. Al modo dell’exuperyniano: questa mattina ho innaffiato la rosa.
Dal nostro punto di vista il succo della narrazione è evidenziato in modo latente, ma significativo, dal paradosso sotteso, appunto, dal titolo. È fuori casa che si costruisce e può esistere la vera casa: fuori di sé si apprezza e si desidera abitare la vera casa, che non è di ognuno, fino a quando non è sarà mai completamente di tutti. E, fino a quando non sarà di tutti, non potrà mai essere di alcuno.
Fuori casa è il capovolgimento e la negazione del contenuto sotteso dall’altro detto: casa fuori.
Ho casa fuori potrebbe significare che ho un di più, per riposarmi, per spassarmela, per vivere meglio. Ho più spazio. Ho un alcunché che probabilmente altri, pochi o molti che siano, non possono permettersi. Non hanno o non vogliono avere.
Al contrario, i personaggi maggiori o minori che incontriamo vivono una sorta di nascita all’incontrario: dispersi e quasi polverizzati, ognuno a suo modo ed ognuno nella propria condizione esistenziale, dai fatti dolorosi della vita, collaborano attivamente a quella sorta di richiamo latente nel messaggio, che prima o poi giunge a tutti: questa mattina ho innaffiato la rosa: tu hai fatto altrimenti? L’ “amore, compassione, destino,sfighe” (p. 13) sono il condimento necessario. Qualcuno direbbe le lacrime ed il sangue. Ad una casa che rispetta quasi tutte le caratteristiche di un’abitazione mobile, in quanto molto simile ad una tenda, si addicono mezzi precisi ed essenziali.
Fuori casa non è fuori dai sentimenti, dai legami di appartenenza e di comunanza, ma consiste nel riuscire a vedere oltre i limiti del proprio vaso-giardino, a non credere che il proprio spazio sia il più fertile di tutti, che solo la propria rosa sia senza spine. Non contano le differenze. Le distanze non sono invalicabili. Esiste e resiste soltanto quell’eco radicale, che promanando dagli altri, ci indichi perfettamente le coordinate del nostro viaggio. Perché l’inizio è soltanto nel fine ed i puzzle sarà completato soltanto da una narrazione-visione d’insieme.
Al temine della lettura si scopre che tutto il narrato “Sembra un romanzo, - ma - non lo è. Nessuno ha recitato una parte”, (pp. 12-13). Si tratta solo di “Una storia eccezionale per una famiglia che sembra precedere il cambiamento a livello mondiale, chiamato con due paroline ad effetto “villaggio globale”. Ecco, questa famiglia è dislocata in tutto il mondo!” (p. 23). La loro storia siamo tutti noi.