Mario Lunetta , I nomi della polvere

11-01-2006

Il mondo sbanda nella giostra della nostra follia, di Giuseppe Cassieri


I nomi della polvere, una storia fibrillante di uno dei pochi scrittori ancora “resistenti”
Non ultima, una latente vertigine: il mondo che sbanda intorno a noi, noi intorno al mondo, in un rovescio continuo di posizioni. Si accenna, qua e là, alla follia del nostro vagheggiare nella giostra; ma non è la savia follia di Erasmo; è piuttosto la follia sancita da Baltasar Gracián, il grande saggista del siglo de oro: “Si nasce tutti pazzi; qualcuno lo diventa”.
Con un titolo straniante –I nomi della polvere– che fibrilla ininterrotto lungo le duecentosessanta pagine, Mario Lunetta ci consegna la narrazione forse più complessa e sbrigliata nella sua lunga attività di poligrafo: poesia, drammi, saggi, racconti (ne cito uno, indimenticabile: Mercato delle anime).
Chi lo segue da qualche decennio sa che lo scrittore romano è uno dei non molti “resistenti” in campo aperto, un accanito sostenitore della letteratura senza virgolette (distinguo sacrosanto offertoci da Maurizio Cucchi sul “Corriere della Sera” delle scorse settimane, a proposito di furbesche assimilazioni), ovvero letteratura mai subordinata al trend editoriale e perciò spesso obbligata a partorire nelle benemerite nicchie di frontiera. Una letteratura non “come vita” né, volgendola in paradosso, “come menzogna”; bensì intesa come laboratorio critico permanente di idee e azzardi in senso antiorario, e altresì come piazza d’armi: agguerrita, provocatoria nei rifiuti e nelle scelte.
È questo, ci domandiamo, il segnale neo-illuminista che connota lo strumento privilegiato dell’autore (ossia lingua-linguaggio) in quarta di copertina? Fondamentalmente sì. Però, a parer mio, prima che i numi del neo-illuminismo, valgono le infrastrutture della neo-avanguardia, sebbene distanziata e secolarizzata nell’opera specifica di Lunetta. E comunque pronta ad allargare l’area sperimentale, valorizzare l’attrito alto-basso e mettere in gioco perfino il feuilleton: costruirlo e decostruirlo per verificare in che misura quel generoso ammortizzatore di fantasie pre-industriali oggi lievita nella fruizione mediatica. Così che narrando esplora, esplorando inventa, inventando ricava una schermata indicatrice di voci caotiche che s’infrangono nella polvere.
Il lettore in ogni caso si prepari a un turbinio di vicende antinomiche: realissime e surreali, e di personaggi al tempo stesso pari e dispari, soggetti e oggetti, occulti nell’identità o esposti solo di tre quarti; il quarto mancante è delegato al piacere di chi si addentra nel tunnel della iperfinzione.
Se poi l’occhio corre involontariamente all’indice e incontra due signori austeri delle scienze umane –feedback ed entropia– si finga di non vederli, e non si tema il loro ingresso nell’apparato degustativo. Il quale viene subito preso e coinvolto dalle storie trilleggianti di uomini e donne che s’intrecciano, si amano e si dilaniano a circuito chiuso.
Eccoli in ordine sparso: Nico N.N., divorziato e disincantato cronista di medio successo; B., un campione aeronautico dotato di charme e orgoglio luciferino; Federico, fratello di B., bellissimo dalla nascita alla giovinezza, colpito da un crudele lupus che lo devasta e –causa o concausa– lo induce a un suicidio probabilmente assistito. Un mix di pietà o di empietà? Alvaro, professore di francese (il francese, ricordiamolo, è lingua adottiva di Lunetta), vedovo da cinque anni, vittima di una passione infausta; Furio Buozzi, musicista jazz detto il Dinamita (magnifiche le pagine nel resoconto luttuoso di Alvaro sulla perdita dell’amico). Quindi le donne: Barbara, laurea in chimica, apprezzata ricercatrice che rinuncia a una brillante carriera (può permetterselo), moglie di B., tradita da costui che nel frattempo scompare, propiziando a vario titolo un inseguimento collettivo; la “lesbica boema” Vera Budna, un donnone ibrido e indigesto che insegna psicologia all’Università di Padova, seduce le fanciulle in fiore (ne ucciderà una, Ofelia) e diventa l’eminenza ossessiva della splendida J.
E proprio J., attrice e mina vagante, si pone al vertice dell’intrico. Una di quelle Eve mai riavutesi, si direbbe, dal trauma paradisiaco,dannate a spargere miele e file nell’universo sensibile e a dare scacco al compagno, sempre un po’ smarrito e intronato nella rete.
Non aggiungo mezzo rigo circa lo svolgimento e lo sbocco della parabola. Sottolineo invece la tensione della scrittura, tra le maggiori in circolo, l’uso corsaro della parola, la padronanza di qualsivoglia registro espressivo: dal gergo plateale alle raffinatezze stilistiche. E sottolineo, in specie, quelle che potrebbero sembrare sequenze collaterali, intrusioni e dilatazioni a svantaggio del ritmo narrativo. Tutt’altro che svantaggio. Esse equivalgono a piazzole di sosta dove si filtrano tematiche e problematiche emerse nella corrente vertiginosa del testo. Ad esempio, l’orrore delle carceri, la politica di ieri e di oggi e relative ideologie; il giornalismo, i salti e i soprassalti delle nuove generazioni e del costume (si vedano in particolare gli anni Settanta e Ottanta), le fobie, la solitudine metropolitana e, all’opposto, le calde periferie, l’umanità, la solidarietà della Roma post-bellica.