I "tic" del mondo moderno, di Giorgio Luzzi
Molti dei personaggi, soprattutto maschili, di questo nuovo e più che mai importante romanzo di Mario Lunetta sono afflitti da un tic psicosomatico significativo: l’attitudine ad arrossire. Questo tic in verità ha un valore ambivalente, tanto che si potrebbe dire che a partire da esso è legittima l’opera di ricostruzione psicosociologica del panorama umano con il quale lo scrittore romano ci propone di confrontarci. Segno di debolezza e per di più di inadeguatezza e di vergogna storica, il rossore rivela peraltro la presenza indistruttibile di un fondale etico, di uno scenario della responsabilità e soprattutto di un primato della relazione adibito a elemento regolatore dell’esistenza.
Il senso del fallimento che la generazione messa in scena viene espresso con violenza sintomatologica a indicare che un altro percorso etico esisterebbe e che ciascuno sa qual è ma non è in grado di individuarne il bandolo, dibattendosi con ciò tra il ripiegamento sulla propria narcisistica inadeguatezza e il morso di un poter essere che, appunto, non ha mai subito una rimozione completa. In una società come la nostra attuale, in cui la sfrontatezza estrema è pari alla fame animale di visibilità, gli “inetti” di Lunetta appaiono non semplicemente dei deboli e dei mediocri ma dei soggetti profondamente e umanamente problematici, colti costantemente sul crinale di scivolo della responsabilità, della condanna e della assoluzione.
La caratteristica strutturale del romanzo è affascinante: i personaggi, che si avvicendano come in una serie di quadri teatrali, parlano in genere di altri personaggi, così che ciascuno si forma sulle voci date all’io altrui. Tra i colpi di spugna assestabili al sempre virulento sgomitare del naturalismo in narrativa, questo di Lunetta è dotato di una particolare energia: i suoi protagonisti, contesi tra l’io d’azione e il monologo interiore, sono generalmente “prestati” da altre voci parlanti e polifoniche che si intrecciano, all’inizio in una suggestiva ipotesi di fondo oscuro, poi via via lasciando emergere una controllata chiarezza. Si tratta di una tecnica che definirei “dello specchio differito”: chi parla vede riflessa di fronte a sé non la propria immagine, bensì l’immagine in formazione di un altro soggetto in relazione, un vero e proprio embrione tipologico in crescita.
Forse è da qui che occorre passare per spiegarci quella espressione chiave nella notizia in quarta di copertina: “voci e situazioni in un intrico che utilizza una lingua da definirsi neoilluminista”. Sono molti gli accertamenti da fare per valorizzare la chiave razionalistica di questa scrittura, compresa l’attitudine all’antiromanzo, o meglio l’attitudine a fare della situazione narrativa uno smalto di superficie, una corazza variabile, sotto la quale funzionano in secondo grado le vere finalità di chi scrive. E sembrano essere, queste ultime, coordinabili in alcuni punti, che riguardano non soltanto la “lingua” ma la struttura vera e propria. Uno di questi punti riguarda un’idea di romanzo come espressione della moderna cultura del romanzo: da quando, cioè, la modernità ha scoperto che il romanzo, e solo esso, è il luogo che attiva e attira ogni ordine di saperi; ecco perché, nel nostro caso, la configurazione che oserei definire “settecentesca” del libro di Lunetta ammette al suo interno la presenza di una ideale enciclopedia dei saperi e perciò si trova sempre in bilico tra il pathos della trama e la secondarietà-perifericità della vicenda. L’intreccio, molto abilmente, si addensa sempre più, assume le movenze di un poliziesco, e però contemporaneamente ci accorgiamo che questo castello ipernarrativo è vacuo e illusorio, e che la funzione critica e problematica prende il sopravvento, rallenta la trama, la ricaccia in secondo piano, assegnando il primato al godimento dei saperi. Ciò significa molte cose: da un lato il ripristino della sperimentalità contro il mercantilismo editoriale; dall’altro appunto il primato dei saperi che assume un volto saggistico-intellettuale, a scapito della funzione di intrattenimento.
E però è proprio qui che il libro si fa coinvolgente: nell’abbandonare una trama che il lettore sempre più avverte come guidata intenzionalmente sul vuoto, e piuttosto nell’approfondire in senso drammatico le potenzialità di relazione dei personaggi e le caratteristiche stesse dei loro saperi, grazie alle quali i soggetti si definiscono. I saperi stratificati messi in scena si fanno azione essi stessi. Forse è per questo che, personalmente, ho preferito l’oggettività delle narrazioni culturali ai dialoghi tra personaggi; l’intelligenza critica di Lunetta continua a coinvolgere anche nel cuore della invenzione, abile, insolita e singolare invenzione, la quale però ricade fortunatamente nel cerchio che definisce criticamente il giudizio sul mondo, la politica dei soggetti sociali e i condizionamenti che li assillano. C’è, per chi sappia leggere con cura, un messaggio complessivo, ed è quello dell’autodistruttività. E c’è chi si salva. Si salvano in due, come i progenitori del mondo umano dopo una catastrofe; Barbara decide impercettibilmente anche per Nico, ed è lei il modello positivo del romanzo. Però non è qui, in questo che l’autore maliziosamente definisce in chiusura “Terminus a quo”, il senso del libro; o meglio il libro non è costruito per arrivare lì. È costruito, a mio modo di vedere, perché ciascuno vi scopra liberamente la propria portata più ambita, i propri luoghi dell’intelligenza (e magari del cuore). E in questo senso ci troviamo più che mai in presenza di un romanzo aperto.