Mario Lunetta, I nomi della polvere

01-03-2006

Scrivo romanzi alla scuola del grande Bertold Brecht, poeta strepitoso, di Sabrina Penteriani


Poeta, narratore, critico, saggista, drammaturgo: ha una personalità eclettica Mario Lunetta, il primo dei cinque finalisti del Premio Bergamo a presentarsi al pubblico, rispondendo alle sollecitazioni di Mimma Forlani, nell’incontro di domani sera alle 18 nello spazio al IV piano della biblioteca «Tiraboschi» di via San Bernardino 74.
Lunetta, classe 1934, è nato e vive a Roma. Ha pubblicato una quindicina di raccolte di poesia e quattro di racconti, tra i quali Il mercato delle anime, presentato sempre nell’ambito del Premio Bergamo qualche anno fa. Il lavoro con il quale concorre quest’anno, I nomi della polvere (editore Manni, pp. 262, euro 18) è il suo nono romanzo. Scrive da sempre, da quando era bambino, e da sempre, schivando le lusinghe dell’«editoria di consumo», predilige la ricerca: per lui la letteratura è un laboratorio permanente.
Per lei il linguaggio che cos’è?
«È un labirinto nel quale districarsi con il massimo della lucidità senza però rinunciare alla passione. Per un intellettuale della mia formazione la razionalità è un fatto stringente, ineliminabile. Allo stesso tempo occorre un forte slancio nei confronti della realtà, anche quando è da rifiutare oppure è sgradevole. La ragione è comunque indispensabile: e questo porta con sé un tipo di scrittura particolare, che alcuni hanno definito di tipo illuministico, ma con forti componenti di tipo espressionistico. L’espressività per me è un nucleo molto forte, che dev’essere capace di diramazioni più o meno infinite: per questo il mio sguardo va sempre alle grandi esperienze del secolo scorso, e in particolare alle avanguardie storiche, e alle avanguardie degli anni ’60 e ’70».
Quali sono i suoi maestri? Che cosa le piace leggere?
«Un nome su tutti, quello di Bertold Brecht, poeta strepitoso, ma spesso schiacciato dalla sua grandezza di drammaturgo. Poi Leopardi per quanto riguarda la tradizione italiana e Baudelaire per quella europea, e ancora Gozzano, Campana, Montale e le avanguardie con Sanguineti in testa e Pagliarani. Per quanto riguarda la narrativa apprezzo molto Gadda, Landolfi, Savinio, che pongono al centro del loro interesse il linguaggio, anche come macchina autonoma rispetto ai contenuti, con una fortissima esigenza di innovazione.
Da dove nasce I nomi della polvere?
«L’idea è nata molti anni fa da una visita del tutto casuale all’aeroporto dell’Urbe, a una mostra storica: da lì è partito l’interesse nei confronti dell’aeronautica. Il titolo, I nomi della polvere, dice che anche i nomi sono un fatto fortemente reale, e che anch’essi poi si polverizzano, si dissolvono in nulla. C’è una sorta di forte nichilismo nel mio libro, e una visione piuttosto amara e sconsolata della vita».
Per questo ha scelto di mettere solo le iniziali invece dei nomi interi di alcuni dei personaggi principali?
«Perché no? La mia è una storia di scomparse, e di suicidi intrecciati, o di omicidi involontari. Il nome puntato fa del personaggio una sorta di larva, di spettro molto corposo. Il protagonista per esempio, B. non compare mai in prima persona. Questo sta a significare la fragilità dell’essere umano, ma anche la sua grandissima forza e pregnanza, che però alla fine si dissolve nel nulla».
La scrittura del romanzo è molto densa, stratificata.
«C’è una sorta di gioco di sovrapposizioni, dimenticanze, lapsus, perché sono molte voci a parlare e ognuna porta un suo rapporto molto contraddittorio. È una sorta di ragnatela, in cui poi tutti rimangono presi e anche i loro nomi si fanno polvere, come la loro esistenza reale e fisica. Il finale è non del tutto negativo, ma mi sembra che la parodia risulti lampante. Non c’è identificazione dell’autore con i suoi personaggi o i suoi schemi narrativi. C’è invece una distanza straniante: torna in questo la lezione del grande Brecht».
Si ha spesso l’impressione che il libro non racconti una storia, o meglio, che la storia sia il pretesto per costruire un’indagine interiore di natura filosofica…
«C’è una forte componente teorica in tutti i miei lavori letterari. Non credo alle pulsioni romantiche per cui si scrive di getto e secondo quello che detta il cuore».
E ogni personaggio rappresenta un tassello di questo disegno.
«Ogni personaggio divaga, è un istante di divagazioni continue questo libro, e sta in questo forse anche la sua stranezza. È costruito come una sovrapposizione di lastre fotografiche che prima di prendere luce svaporano come in dissolvenza, e poi di colpo riemergono con violenza enorme. Il lettore intelligente di certo non si annoierà».