Mario Lunetta. L’atto d’accusa del poeta, di Rossano Astremo
Il sottotitolo del nuovo libro di Mario Lunetta parla chiaro: poema da compiere, opera aperta in germinazione, sulla quale il poeta, narratore e saggista romano potrebbe ritornarci per darne una nuova versione.
Quello di Lunetta è un viaggio in versi nel paese in cui vive, il filo principale è quello del percorrimento della penisola, il compendio storico geografico della catastrofe definitiva. Lunetta, nella sua scrittura in versi, predilige il verso lungo, quasi prosastico, come a segnare la sua incapacità a contenerne il senso in strutture in versi meno complesse, aritmicamente fluide.
Da conoscitore della letteratura e di tutte le forme artistiche, Lunetta, nella sua tragicomica descrizione del Paese e della gente che lo abita, cita e ricita i maestri a lui cari (Brecht, Beckett, Shakespeare, Cezanne), creando un poema ad alto voltaggio semantico.
Un atto d’accusa all’Italia d’oggi, all’orrore che la percorre, al suo disfacimento politico e sociale, al suo imbarbarimento culturale, ai suoi vizi morali ritenuti oramai prassi, un poema che invece della cauta lettura silenziosa dovrebbe essere letto ad alta voce, che predilige il canto urlato, mai domo, dell’assenza di resa, della fisica azione: “No, ragazzi, non siamo proprio / dentro la polpa della mela; / siamo in braghe di tela, invece: nel gioco a perdere / del post-totalitarismo, agitati / in questo maxi-shaker / di showmen falliti. / Un’allegria illividita / corre sui volti e sulle pagine nutrite a junk bonds. / Vedo ridere isterico. Vedo troppe mezze calze rampanti. / Vedo qualcosa che non vedo già più – finzione persistente / nella mia smemorata mente”.