Cinque domande a Lunetta, di Massimiliano Borelli
Mario Lunetta, poeta, narratore, saggista e critico romano, autore di numerosi libri, ha da poco pubblicato un “poema da compiere”, La forma dell’Italia (introduzione di Francesco Muzzioli, Manni, Lecce, 2009, pp. 77, € 10). Un’opera lucida e rabbiosa, i cui versi seguono la superficie deforme e corrotta del nostro Paese. Lo «sguardo sguincio» della sua scrittura attraversa l’immaginario nostrano, per passaggi ruvidi che (ci) scuotono (nel)la lettura, e ci consegnano una critica forte della nostra “forma” collettiva. Gli abbiamo posto cinque domande, a partire da alcuni frammenti del suo libro.
1.
«beh sì, allora, allora veramente/ pare a questa mente intorpidita, a questa mèntula/ di corta memoria, che il presente/ in tutto il suo turbine melmoso sia ancora abitato/ da persone defunte che non defungono,/ che non chiedono riconoscenza ma confronto/ senza fine, non ossequio o suffragio,/ ma soltanto partite con carte in tavola – o silenzio, in questo/ transito da puttane che è oggi/ la forma dell’Italia.»
In questi versi lucidamente invettivi riecheggia l’ammonizione di Benjamin a considerare nella critica e nella lotta politica non già le aspirazioni di coloro che verranno, bensì ad agire in primo luogo per la “vendetta” dei trapassati, dei vinti del passato. Per un riscatto che si nutra della memoria; per una giustizia che sia effettivo risarcimento, riemersione dell’oppresso – non facile e paternale “ossequio”. In sede poetica, come si traduce tutto ciò? La citazione e il riferimento ad autori del passato entra in questa dimensione (tutta politica, oltre che letteraria) della “vendetta” delle cose “defunte che non defungono”? Della composita tendenziosità (a “carte in tavola”) dell’operazione letteraria?
Credo che non si possa onestamente sfuggire alla proposizione di Walter Benjamin, che nei materiali preparatori del suo Passagen-Werk parla della moderna età borghese come di un inferno: “Età moderna, età dell’inferno. Le pene infernali sono di volta in volta l’ultima novità in questo campo. Non si tratta del fatto che accade ‘sempre lo stesso’ (a fortiori, il discorso non è qui sull’eterno ritorno), ma del fatto che il volto del mondo, il suo capo macroscopico proprio in ciò che è più nuovo non cambia mai, che questo ‘nuovo’ in tutte le sue componenti rimane sempre lo stesso. Ciò costituisce l’eternità dell’inferno e il piacere innovativo dei sadici”.
“Organizzare il pessimismo” era, per lui il compito primario dell’intellettuale-scrittore. E, a proposito della critica letteraria, oggi nel nostro paese così depressa e (per tristi ragioni di mercato editoriale) quasi superflua, è ovvio che la necessità della consapevolezza risultasse nella sua strategia assolutamente primaria. Si legge in Programma della critica letteraria: “Funzione della critica, soprattutto oggi: far cadere la maschera dell’ “arte pura” e mostrare che non esiste un territorio neutrale dell’arte. La critica materialistica quale strumento a questo scopo” (1929-1930).
In questo senso, sono convinto che anche la poesia degna del nome contenga dentro di sé la propria autocritica, appunto come voleva Baudelaire; e che, dissolto l’effetto-aura che tende a proiettarla in un’improbabile eternità, essa debba funzionare come luogo della contraddizione, dell’implacato conflitto non soltanto dei segni ma del giudizio nei confronti della realtà in cui prende corpo e senso: com’è del resto di ogni Werk, di ogni lavoro umano. Niente irenismo, quindi; e, al contrario, onesta tendenziosità (proprio nel senso del nesso qualità-tendenza); e ricerca di una costante tensione degli strumenti linguistici il più possibile serrati all’interno del campo autonomia/eteronomia.
2.
«Ma il presente è solenne e sarcastico. È l’arroganza, la protervia,/ anzi la presunzione di ciò che è – e ti preme sul costato/ ti cuce la bocca, non si sposta di un millimetro, non si sdoppia/ nella sua ombra, non fa cenni di diniego, è assente/ in uno spazio che non si vede.»
Lo spazio letterario è il luogo della contraddizione. Per questo, del resto, è mestieri che cada ogni pretesa di extraterritorialità del letterario. La contraddizione (termine a Lei caro, a cui si intitolava una Sua antologia del 1989) è invischiata, nel traffico comunicativo, dalla melassa di “ciò che è”: per essa la contraddizione è il nemico destabilizzante e disfattista da oscurare. Qual è oggi il vantaggio della letteratura (se ce l’ha) nel condurre un discorso che sia un continuo “cenno di diniego”?
E’ chiaro che ogni testualità letteraria che non si misuri con la complessità e il groviglio del reale, tende alla falsa purezza dell’aura astratta: il che coincide con una certa percentuale di irresponsabilità e di chiusura gnoseologico-formale. Una sorta di indisponibilità e, al limite, di mutismo. E’ in questo senso che, in ambito di ciò che tradizionalmente passa sotto il nome di poesia civile o politica, mi pare più esatto adottare il termine poesia dialettica.
Per quanto mi riguarda, la categoria della contraddizione non è un mero principium, ma una strategia pratica. Un materialista non può esimersi dal perseguirne anche le incongruenze e le aporie col massimo di lucidità di cui è capace, al fine di farle esplodere e rinnovarne la necessità ulteriore in termini di linguaggio che avanza (non che è avanzato da chissà quali banchetti e gozzoviglie).
Oggi il “potere” della letteratura è drasticamente ridotto dal rumore dei media e dalla mediocrità delle scelte della macroindustria della cultura, che privilegiano in misura pressoché totalitaria la banalità sulla ricerca, ciò che è rispetto a ciò che potrebbe essere. La carica utopica della buona letteratura, interna al suo linguaggio-pensiero, è considerata una mera negatività nei confronti di una platea di lettori ridotti al ruolo di semplici consumatori di cibi precotti. E’ a tutto questo che ritengo da sempre doveroso opporsi, se non altro con la produzione di esempi di scrittura in controtendenza. Benjamin parlava di necessità di passare “il contrappelo” alla storia.
3.
«Patchword»
: parola bivoca, biforcata, che cortocircuita tra –work e –word: lavoro e parola: il lavoro della parola, della “mente” e della “mèntula”, il cui prodotto non può che essere una “distesa rattoppata” di materiali eterogenei, nella quale i bordi si graffiano a vicenda. Così è la Sua poesia prosastica, tesa tra segmenti in conflitto. Quale valore dà Lei al “lavoro” della e nella parola letteraria? Qual è il suo “specifico”, secondo Lei?
La testa e il corpo. Il pensiero in moto e la corporalità non repressa. Credo che la scrittura poetica (e più latamente letteraria), insomma – senza nessun profumo ontologico – il testo, debbano aggredire e lasciarsi aggredire dalle istanze più svariate del reale muovendovisi dentro con una bussola e un machete il più possibile precisi e sofisticati. Conoscenza magistrale, da maestro artigiano, delle regole d’arte per poterle di volta in volta infrangerle; cultura pluridisciplinare adeguata; “cinismo” intellettuale almeno pari alla raffinatezza di una sensibilità feroce.
Così, la mia scrittura poetica, che Muzzioli ha recentemente definito “barbara”, ingloba sempre più in una griglia prosastica – ma meglio sarebbe dire polimerica – una quantità di materiali eterocliti, di lingue, dialetti, gerghi, lavorando quindi in un territorio sconfinato e impuro, devastato e inquinato: appunto com’è il mondo del capitale neoliberista, della mondialrapina selvaggia e impunita. Anni fa non a caso mi provai a definire le mie procedure poetiche e narrative come un conglomerato di “scrittura dell’orrore” – non perché allineate sul genere horror, che quasi sempre è un invito all’evasione: ma per significare la convinzione che a un’ideologia come quella del dominio economico-politico-religioso mediaticamente truccato da un’aura di mistica sacralità, non si possa che rispondere con modalità di linguaggio crudeli (la traccia profonda lasciata da Artaud, Brecht, Beckett, Gadda, Emilio Villa, Cacciatore, in primis) e senza promesse di facile salvazione o conforto.
4.
«(Per la fatica di pensare/ mi si rompono le mani,/ in questa terra invasa, in questa terra invasata).»
Materia e riflessione si accavallano, nel panorama semantico del poema, configurando una prospettiva divaricata, distaccata e al contempo partecipe nei confronti della realtà, essendo impossibile una fuga da essa, ma conoscendo pure i rischi di uno schiacciamento irriflesso e pretenziosamente immediato su di essa. Potrebbe descrivere la dialettica tra sensorialità, visione e riflessione critica e distacco presente nei Suoi versi?
Un procedimento a stantuffo, all’interno di una circolazione arteriosa. L’immersione nella datità fenomenica e insieme la presa di distanza straniata. Il coinvolgimento magari appassionato ma che esclude il pathos (che fa tanto simpatia partecipata, come usa dire).Uno sguardo sguincio che tuttavia non è sfuggente, non cerca evasioni. Un desiderio di contatto capace al massimo di mantenere un decente tasso di lucidità critica. E l’impasto linguistico, il magma: da governare con rigore, ai confini dell’autosarcasmo, della distruzione della figura del Poeta come ridicolo demiurgo.
5.
«La forma dell’Italia»
In tempi di nuovo realismo, di nuova epica, di documentarismo, perché ha scelto di intitolare il Suo poema alla “forma”?
Non deve sfuggire la piegatura ironica e, al limite, amaramente beffarda, del lemma “forma” applicato all’Italia, che ne è sempre stata storicamente priva, dopo il tramonto della civiltà romana; e che nei nostri anni sciagurati si sta sempre più riducendo a poltiglia vile, a materia mucillaginosa.
A parte il privilegio da me sempre concesso al principio formale nel farmi “produttore” estetico, proprio nel segno di un nuovo confronto con la realtà complessiva attraverso la forma intesa come sostanza del contenuto, suppongo che in questa pronuncia poetica di una forma non estetizzante, ma piena e magari sovraccarica di cose, elementi, situazioni, riflessioni, citazioni, documenti, di utopia in una parola, possa confortarmi l’ipotesi del vecchio Aragon che parlava nella sua estrema stagione di realismo congetturale.
Il resto esige, dopo un ringraziamento all’intervistatore, il silenzio dell’intervistato.