Mario Rondi, L'orto delle gru

01-01-2006

Quattro sezioni autonome e armoniche, di Mario Andreassi

L’orto delle gru, tredicesimo volume del lombardo Mario Rondi, si presenta articolato in quattro sezioni, ben armonizzate tra loro e tuttavia capaci di mantenere una specifica e autonoma fisionomia.
La prima sezione, eponima del volume, porta il lettore in «un mondo gremito di presenze (animali, vegetali) e assenze insostituibili, un mondo di concretezza e insieme di visionarietà». In ventisette madrigali, Rondi fa dell’orto la metafora di un luogo chiuso, dove egli «sta in guardia», simile a «un falso armigero a cavallo»: qui «passa in rassegna / le verdure allineate e disarmate», qui «corteggia con candore […] le zucchette / e le fave», qui incontra il sorriso affettuoso o canzonatorio di cornacchie, scriccioli, scoiattoline e merli. E tuttavia, non meno del «grillo brontolone / che gli ripete “tutto va benone…”», Rondi è complice del suo gioco poetico (e, in fondo, esistenziale): la sua è una «sceneggiata» e gli abitanti dell’orto interpretano «la buffa farsa dei commedianti». Lo sorregge un’ironica coscienza, ottima anche –ma non solo– come remedium amoris («il mio amore è morto […], ma lo strano // è che rido, divertito dal gioco / del destino che si burla non poco»). Poche figure, oltre gli abitanti dell’orto, si affacciano a questo mondo volutamente inaccessibile: presenze oniriche, impalpabili, come la danzatrice «cacciatrice / di fantasmi» o un Dio che chiama per avere «l’invito / alla festa del compleanno».
Un mondo ugualmente autosufficiente ma più rarefatto è quello che si delinea nella seconda sezione (Il profumo delle fiabe). L’amore qui domina, declinato in molteplici forme e situazioni (dolce, crudele, ironico, melenso, morboso, sensuale), ma soprattutto un amore assente, che si affida a speranze e a istanti più che a certezze e a permanenze. È un terreno, questo, sul quale Rondi si muove agevolmente, dispiegando, in ottave non rimate, i suoi più caratteristici marchi lessicali («sorriso», «incanto», «carezza», «bacio», «sogno»), spesso incastonati in un’altrettanto peculiare struttura sintattica dove il pronome relativo «che» salda e incatena più proposizioni (negli otto versi de Il foulard si contano ben quattro «che» relativi e uno congiunzione). Le ultime tre poesie segnano una lucida presa di coscienza e la fine del «profumo delle fiabe»: tra gli uomini i sorrisi si spendono «per rivalsa» e, nell’impotenza delle parole, «col sorriso sulle labbra tutti / son pronti a ucciderti».
Nella terza sezione (Video-clip) lo sguardo del poeta si allarga: pur senza trascurare se stesso e la persona amata, egli ora si rivolge all’esterno, alla realtà in cui vive e alle finzioni e contraddizioni che la governano (il testo di Sanguineti, in epigrafe, è quanto mai esegetico). Il massiccio impiego di neologismi, di termini scientifici e tecnologici, di parole straniere («ipotenusa», «body», «optional», «floppy», «vu cumprà», «word processor», «pass magnetici») si associa all’uso ortografico di parentesi non chiuse e di trattini che, senza sconvolgere il ritmo del verso (sciolto, in questa sezione), trasmettono un senso di rottura, di frammentazione, quasi di una sovrapposizione di immagini e suoni non dissimile, appunto, da quella di un ‘video-clip’.
Ne Il fiore del ricordo, quarta sezione del volume, si placa l’inquietudine psichedelica di Video-clip e, come in una Ringkomposition, il poeta torna al madrigale e a temi più introflessi; ma se L’orto delle gru celebrava il presente e la surreale quotidianità dell’orto, Il fiore del ricordo dà spazio –come già annuncia il titolo– alla rievocazione. Con la sua consueta levitas dolceamara, Rondi qui introduce la figura della madre (evocata solo in Ricerca, ma presente anche in altre poesie, oltre che nella dedica del volume): è un affettuoso rivivere i momenti trascorsi in un necessario equilibrio tra il vuoto della perdita e il persistente riemergere del passato. Eppure c’è una continuità, un dialogo silenzioso. «Tutti questi morti che gravitano / nella testa alla fine mi lasciano / sollevato», riconosce il poeta e –con una serenità figlia di lucida saggezza– sposta progressivamente il suo sguardo; dai morti veri (la madre, quelli che «[n]ella fotografia son tutti morti») passa a osservare un morto sui generis: il ricordo di se stesso, un coacervo di luoghi volti azioni legati a un tempo che non è più, a un’epoca che ormai li ha resi fossili. L’imperfetto è il tempo principe di questa sezione: il tempo vita parallela, consegnata a una reiterazione inattuale, e forse non meno virtuale (e non meno indispensabile) di tutta la vita racchiusa nell’orto delle gru.