Massimo Loche, Lo scottante problema delle caldarroste

27-07-2005

Lo scottante problema linguistico delle caldarroste e delle baby sitter finite in manette sui giornali, di Massimo Loche


Gli storici della lingua concordano con sorprendente unanimità: l’italiano contemporaneo si è formato e modificato sotto l’impulso decisivo dei giornali prima e in seguito della televisione, ma soprattutto a quest’ultima si deve l’unificazione linguistica dell’Italia. Se nel nostro Paese non si parlano più cento dialetti, spesso lontanissimi fra loro e reciprocamente incomprensibili, ma un italiano condiviso e compreso da tutti (o quasi), è in gran parte merito del sistema televisivo oltre che della scolarizzazione di massa. Da questa prima e oramai ovvia constatazione deriva per i giornalisti, e in primo luogo per i giornalisti televisivi, una pesante responsabilità, non solo nei confronti dei loro lettori e ascoltatori, non solo verso la correttezza dell’informazione (qui non parliamo di deontologia), ma anche nei confronti della lingua italiana.
IMPOVERIMENTO Ma noi giornalisti siamo all’altezza di questo compito? Purtroppo la risposta non è positiva. E non è un problema solo nostro: nell’introduzione al manuale di stile della Bbc si può leggere: «dobbiamo essere coscienti del pauroso impoverimento causato dalle emittenti radiotelevisive che sembrano decise a ridurre l’uso dell’inglese al livello dell’asilo d’infanzia, o addirittura a un livello più basso».
Il linguaggio usato nei giornali e nei telegiornali non è certo dei migliori: è sempre più infarcito di luoghi comuni, è sciatto, approssimativo in gran parte dei casi, altre volte è vittima del “bello scrivere” (ma questo sarebbe il male minore) e ancor peggio fa transitare nel linguaggio corrente la pesantezza della terminologia burocratica o inutili tecnicismi, spesso usati a sproposito. Insomma è il contrario di quel che dovrebbe essere il buon linguaggio giornalistico. La conseguenza immediata di questo è che se certamente giornali e televisione contribuiscono all’unificazione e all’evoluzione linguistica del Paese, altrettanto certamente non lo fanno nel migliore dei modi.
POLITICHESE Non è un fenomeno nuovo. Ilaria Bonomi nota: «come tendenza storica», sul linguaggio dei giornali hanno avuto una forte influenza i gerghi poliziesco, politico o peggio politichese, burocratico e così via. La stessa Bonomi osserva che con la fine del fascismo nella stampa italiana si cerca di ritornare a una lingua semplice in opposizione alla retorica che aveva caratterizzato il giornalismo fascista. Ma il processo non avviene rapidamente e «si imboccò subito una cattiva strada recuperando molto del lessico burocratico e stereotipato che già aveva ingombrato i giornali prima del ventennio».
Ci sono eccezioni, naturalmente. Alcuni giornali, come "Paese sera", "Il giorno", "La notte", "Il corriere lombardo" e poi "La repubblica", hanno cercato un modello nuovo, un lessico più semplice senza indulgenze di tipo “letterario”, sforzandosi di usare un linguaggio meno oscuro, senza tecnicismi e burocratismi, evitando di usare quel gergo quasi incomprensibile noto come “politichese”.
NUOVA FASE Dagli anni Ottanta in poi si assiste a una nuova fase: quella dello sviluppo dell’oralità. È la fase in cui si afferma l’influenza del giornalismo televisivo sul giornalismo scritto. Allo stesso tempo avviene il passaggio dalla televisione modello linguistico alla televisione “specchio” «intenta a riprodurre il parlato informale del pubblico partecipante in vari modi alla trasmissione». Oggi si riconosce al giornalismo il merito di aver «contribuito a rendere stabili costrutti innovativi dell’italiano moderno […] e a dare diritto di cittadinanza […] a scelte linguistiche che non troppo tempo fa erano considerate proprie del parlato». Ma allo stesso tempo da un lato la «scrittura giornalistica italiana si caratterizza […] per l’eccessiva espressività e per il frequente ricorso alle frasi fatte», ma per quanto ci riguarda più da vicino «l’odierno patchwork televisivo influisce negativamente, attivando presso gli utenti poco acculturati un’insidiosa destrutturazione del testo scritto». [...] Le parole sono il nostro principale strumento di lavoro. Usarle a proposito e pronunciarle correttamente dovrebbe essere scontato per ogni giornalista, ma non è così. Ci sono parole dalla pronuncia dubbia, altre che vengono usate in modo errato e ognuno di noi ha dubbi e incertezze. Qui si è cercato di elencare alcune parole che creano problemi, quelle più frequenti, e si rimanda ai dizionari e ad altri testi indicati nella bibliografia per tutte le altre.
Le parole vanno anche messe assieme, e questo rappresenta un altro problema: l’ordine nel quale le mettiamo è fondamentale e a volte basta invertire due parole per dare alla frase un significato del tutto diverso. Esempi di questo genere se ne possono trovare soprattutto nei titoli. A volte l’effetto può essere sconcertante come in questo caso: «Molesta due bambini baby sitter in manette»; ci si chiede se per caso la baby sitter in questione si dedicasse a giochi sadomasochisti con le manette ai polsi. Sarebbe stato molto più chiaro scrivere: «In manette baby sitter. Molestava due bambini». Va detto che a creare l’equivoco contribuisce anche l’uso della frase fatta «in manette», un semplice «arrestata» avrebbe risolto il problema. Vediamo un altro esempio: «Disabile in carrozzella scippata» invece di: «Scippata disabile in carrozzella»; nel primo caso, un titolo ripreso da un importante quotidiano, può fa nascere il dubbio che un disabile disonesto usasse una carrozzella sottratta illegalmente.
Molto spesso usiamo aggettivi e avverbi inutili e se ne elencano alcuni casi: altre volte si usano impropriamente gli aggettivi come in questa frase sentita in un telegiornale regionale: «una pineta distrutta da fiamme dolose»; la fiamma può essere terribile, ma non può essere né dolosa, né colposa essendo un fenomeno fisico; l’incendio invece sì perché è anche un reato previsto dal codice.
AGGETTIVI TRASCINATI Un’altra tipica sorgente di errori deriva dal trascinamento automatico degli aggettivi. Il fatto che gli atterraggi vengono sempre definiti felici ha fatto dire a un cronista di un Tg nazionale che «le salme sono felicemente atterrate».
Una particolare attenzione va usata nell’uso delle frasi nominali (del genere fare irruzione per irrompere): vengono quasi tutte dal linguaggio burocratico, hanno lo scopo di “prendere le distanze” e sono considerate a torto più colte o segno di un linguaggio più “alto”. Lo stesso discorso vale per le frasi fatte, usate e abusate, che fanno sembrare sciatto e banale qualsiasi testo. E questo è ancora più grave dal momento che le celebri frasi fatte sono spesso inutili e ridondanti, o addirittura –basta pensarci un poco– ridicole. Ne vedremo alcune, tra le più usate ed abusate, cercando di non dimenticare che non vanno mai usate.
Sono da evitare tutte le parole gergali, intendendo per gergo ogni linguaggio specifico, può essere quello della “mala”, ma anche quelle degli informatici, a meno che non siano oramai entrate largamente nell’uso –come “mala”, appunto– ma si dovranno sempre usare le virgolette, o utilizzare una parola per prendere le distanze. Quando sia proprio impossibile farne a meno, perché sono usate in un discorso diretto virgolettato, o perché esprimono con precisione un concetto che non ha sinonimi, le parole gergali andranno spiegate.