La Giovanna d'Arco e quel Verdi che per Massimo Mila era di 'bruttezza oltraggiosa', di Elena de Stabile
Nel gran giorno della prima della Giovanna d'Arco che apre la stagione della Scala, dopo qualche mese di peana sulla straordinaria occasione di sentire un capolavoro verdiano ingiustamente trascurato, il mio bastiancontrarismo congenito mi ha invogliato a rileggere e consigliare un gustoso libro di Massimo Mila, pubblicato alcuni mesi fa da Manni Editore nella collana "Studi".
Il titolo "Le opere 'brutte' di Verdi", farebbe di suo tirare un sospiro di sollievo ai detrattori del Cigno di Busseto (a scanso di equivoci, la sottoscritta non fa parte della schiera) o chi non riesce ad amarle proprio tutte allo stesso modo.
Ovviamente il brutte del titolo va inteso tra virgolette: il fatto che Mila stesso abbia dedicato all'arte di Verdi un corposo saggio, lo mette al di sopra di ogni sospetto di esser stato un anche solo lontanamente anti verdiano, tuttavia il messaggio che si legge neanche tanto tra le righe scorrendo le pagine di questa raccolta di lezioni universitarie è: non proprio tutte le opere gli son riuscite bene e talvolta per trovare e riconoscere quella che lui chiama 'l'unghia del leone' bisogna cercare tra pagine e pagine di musica non proprio esaltante.
Fin dalla prefazione Mila se la prende con i "neofiti verdiani e le loro assurde pretese di rivalutazione delle opere più scadenti". "Verdi va difeso dai suoi amici -scrive - da quello snobismo intellettuale che si è fatto verdiano", dopo che per decenni si era guardato al bussetano come a un minore rispetto al suo contemporaneo Wagner in base all'assunto per cui fosse preferibile dare la prevalenza all'elemento sinfonico piuttosto che a quello melodico.
La "Giovanna d'Arco", come avrete intuito da questo lungo preambolo, viene messa dal musicologo nel girone delle brutte in compagnia di Alzira, Attila, I Masnadieri, Il Corsaro e la Battaglia di Legnano.
Opere da studiare sì, spiega Mila, ma non per sognare improbabili recuperi bensì per scorgervi "una miniera di procedimenti poi accantonati attraverso l'assidua autocritica del genio".
L'analisi dell'opera è minuziosa e rigorosa, ma quello che ne rende irresistibile la lettura è la proverbiale chiarezza di Mila e una crudeltà sorniona che a tratti strappa il sorriso a chi legge per la spietatezza di alcune definizioni.
Ve ne cito solo alcune: "melodia un po' cincischiata e compiaciuta di se stessa", "perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica a puro scopo edonistico per blandire l'orecchio dell'ascoltatore e permettere al tenore l'esibizione delle sue facoltà" e ancora "melodia sciocca e fatua, gaglioffa". Per non parlare del coro dei demoni, definito di "bruttezza oltraggiosa": "un valzerino campagnolo in 3/8 con civettuole acciaccature pari alla goffaggine del libretto" e poi "accompagnamento dozzinale". "Quando l'Andante cede il posto all'Allegro tutti i personaggi si mettono a berciare a tutta forza" per culminare in "questo finale (del primo atto, ndr) mescola autentiche intuizioni drammatiche a obbrobriose banalità".
A ogni buon conto riporto
a questo link un colloquio col direttore della 'Giovanna' scaligera, Riccardo Chailly, secondo cui «Quest’opera è una necessità imprescindibile per chi ama i suoi Requiem, “Aida”, “Rigoletto”, “Macbeth” e “Traviata”. Insomma, de gustibus.
AGGIORNAMENTO (8 dicembre 2015) Dopo un ascolto forzatamente intermittente e privo della parte video mi sento di dire che: Chailly ha vinto la scommessa e ha trovato un colore orchestrale bellissimo (applausi ai professori) riuscendo a mettere in luce il bello e a nascondere il brutto della partitura. Applausi al cast, in primis ad Anna Netrebko. Della regia non so dirvi, cercherò di recuperare. Streaming web Rai tragico. Ottima conduzione di RadioTre