Il brutto in Verdi, di Gabriele Scaramuzza
La recente segnalazione di Gianfranco Plenizio, Quando Verdi componeva con la mano sinistra (apparsa su “Il Venerdì” di Repubblica il 1 maggio 2015) mi ha sollecitato a leggere il libro di Massimo Mila Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi (edito da Manni, Lecce 2015). Un libro benvenuto, di grande attualità a mio avviso; e scritto da uno dei più insigni studiosi di Verdi. Vale la pena parlarne.
Innanzitutto: è indubbiamente parte insopprimibile nel vissuto estetico-artistico l’attenzione al valore - che si esprime tradizionalmente, nelle sue polarità estreme, nei termini di bello e brutto, con tutte le gradazioni intermedie, che vanno dal grazioso al sublime, dal comico al grottesco al tragico (le cosiddette modificazioni del bello, o categorie estetiche). L’esperienza viva di un’opera d’arte non si esaurisce affatto in un modo di essere neutrale quanto ai valori, in un atteggiamento che sia cioè attento solo alle strutture, ai dati tecnici e formali, alla contestualizzazione storica. La fruizione dell’arte non si muove su un terreno piatto, in cui le cose si possano disporre tutte in modo uniforme sullo stesso piano.
È solo un’astrazione quella che mette tra parentesi i valori; a un certo livello di analisi può anche essere metodicamente proficua (come hanno mostrato Roman Ingarden, lo strutturalismo....), ma non va dogmatizzata. Il vissuto estetico incespica piuttosto, si muove su un tessuto screziato, increspato, tutt’altro che lineare; si distende e si arresta, si rapprende in picchi di massima intensità e si perde in pause d’attesa quando non di apatia. La sua densità su un terreno così accidentato è variabile, tra immedesimazioni e scostamenti, brividi di piacere e insofferenze, entusiasmi e noia.
Ai valori e alle differenze tra essi Mila è fortemente sensibile – e ci mancherebbe che non lo fosse. Dedica una giusta attenzione a una parabola della ricezione di Verdi che passa da forme di sottovalutazione o di vero e proprio disprezzo, a forme di valorizzazione scarsamente equilibrate, quando non decisamente fuori luogo. Nella sua introduzione giustamente scrive di “assurde pretese di rivalutazione delle opere più scadenti di Verdi”; magari in nome di un primitivismo e di un’incultura inesistenti e del tutto fuorvianti. Non sono tutti capolavori le opere verdiane, talune giovanili sono decisamente mediocri anzi; costituiscono “un cimitero di procedimenti abbandonati” per fortuna in seguito. Anche nel ricorso a forme scontate e tradizionalistiche bisogna inoltre distinguere ad es. tra cabaletta e cabaletta, accompagnamenti melensi e accompagnamenti comunque accettabili; non tutti sono banali, non tutti hanno la stessa funzione drammaturgica, né un’identica tensione espressiva.
Giustamente Mila denuncia “l’inquinamento del giudizio critico” in chi pone sullo stesso piano opere diseguali, disattento alla loro qualità. Reagisce a che, “nell’ottusione del gusto” incombente, sfugga “che il valore non consiste” in un “verdismo” non meglio identificato; bensì nella differenza che distingue l’una dall’altra opere che sono di fatto tutte “verdiane” e si riconoscono come tali, ma hanno un ben diverso rilievo assiologico.
Mila riscatta giustamente la produzione verdiana in generale - malgrado ogni evidente caduta di gusto, nonostante ogni carenza, spesso sventolata, di compiutezza artistica - come “un fatto d’arte, un fatto di cultura, tal quale come una Passione di Bach, un’opera di Mozart o una sinfonia di Beethoven”.
Sostiene d’altronde Mila che la situazione della ricezione di Verdi è “ora” (ai suoi tempi cioè, mezzo secolo fa) “profondamente mutata” e che dei “vecchi nemici di Verdi non c’è più traccia”. Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi (come testimonia Postfazione e ricordi di Tito M. Tonietti, utilissimo per contestualizzare il libro) è tratto dalle dispense del corso dell’anno accademico 1963-64, un anno davvero lontano. Purtroppo è solo un’incauta illusione e una effimera speranza ritenere che sia oggi tramontato quell’antiverdismo (talvolta ahimè viscerale) che Mila riteneva sconfitto.
Amare Wagner vorrà dire amarlo tutto, senza cogliere la banalità o la noia di alcuni suoi momenti ? Davvero è necessario disprezzare Verdi per cogliere la grandezza di Wagner, o sottovalutare Wagner per amare Verdi? Si deve amare tutto Verdi, anche i suoi tratti più deprimenti, se davvero si ama Verdi? Non direi proprio. Ove si ignorino le differenze qualitative non esiterei a parlare con Mila (fatto comunque salvo il rispetto per le preferenze personali) di ottundimento del gusto, di desensibilizzazione estetica.
Non sarebbe poi il caso di lasciarsi una buona volta alle spalle la stucchevole, tuttora irrefrenabile moda di contrapporre Verdi a Wagner, di non parlarne senza prender posizione a favore dell’uno o dell’altro, di ascoltarli in modo comparativo? Non ho mai pensato, ascoltando le prime opere di Wagner che mi hanno catturato, di dimenticare la mia passione, radicata, per Verdi. Né mi hanno allontanato da Verdi la fruizione sublime-perturbante di Tristan und Isolde alla fine degli anni Cinquanta, o poi dei Maistesinger con Sawallisch alla Scala, o l’ascolto da un disco del Tristan con la direzione di Furtwängler con Kirsten Flagstad, o ancora del Tristan con Waltraud Meier e la regia di Heiner Müller a Bayreuth. Per tacere dell’emozione viva, ancora a Bayreuth, del preludio di Parsifal nell’incerto chiarore del preludio, e poi dell’incanto non solo del Venerdì Santo ma anche del castello magico di Klingsor e delle Fanciulle-Fiore.... Il mio accesso alla Tetralogia è purtroppo stata La cavalcata delle Walchirie (sigla di una nota trasmissione Rai; un brano wagneriano che nella mia ottica rinviava alla celebre battuta di Woody Allen...), ma non mi ha certo impedito di amare in seguito l’intero Ring; anche qui, come in Verdi, non mancano punte d’una bellezza struggente, vertiginosa. Così l’amore per la Messa in si minore, per la Sinfonia in sol minore, per L’histoire du soldat o per Webern non mi ha mai fatto disprezzare Verdi.
Tornando a Mila, egli riformula a modo suo motivi crociani, la cui estetica è sostanzialmente volta a determinare un’essenza estetica, che è anche il valore sulla cui base giudicare le opere d’arte. Costringere l’estetica in un ambito valutativo è certo una semplificazione improduttiva; un atteggiamento privo di quell’ampio respiro “fenomenologico”, che è indispensabile per comprendere adeguatamente la vita varia e complessa, la ricchezza delle opere d’arte. Ma quanto superficiale e riduttivo è anche mettere tra parentesi, per malintesa scientificità, la sostanza dei vissuti, le insopprimibili tensioni valutative che li percorrono.
Mila affronta qui le opere meno belle di Verdi, “brutte” appunto (e dovremo tornare su questo termine): Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, I masnadieri, Il Corsaro e La battaglia di Legnano. Le meno felici tra le opere di Verdi indubbiamente, per libretti e resa musicale. Opere per lo più francamente imbarazzanti all’ascolto; eppure degne di considerazione. Artisti anche grandi non mancano del resto di tratti malriusciti o tediosi. Anche le peggiori opere giovanili di Verdi rivelano aspetti interessanti drammaturgicamente, non si riducono ai loro aspetti “brutti”. Così d’altronde persino le opere maggiori possono non mancare di momenti drammaturgicamente, o musicalmente, deboli.
Per chi ha sempre avuto interesse alla indubbia presenza del brutto in Verdi (è il mio caso) queste ricerche di Mila sono oltremodo stimolanti. Certo, Mila assume il termine “brutto” nel suo senso più scontato, quello per cui indica un disvalore. Ma sappiamo che ha assunto sensi molteplici, irriducibili a questo (si veda per questo, di Piero Giordanetti, Maddalena Mazzocut-Mis, Gabriele Scaramuzza, Itinerari estetici del brutto, Milano, Cortina 2011). Senza dubbio in Verdi il brutto è vistosamente presente, ma in suoi aspetti estremamente variegati. Non solo nel senso di una negatività irrecuperabile, ma anche in quello di un negativo che si riscatta, e contribuisce potentemente alla produzione di qualità intense, di valori esteticamente e artisticamente positivi. È quello che ho tentato di mostrare nel mio Il brutto all’opera. L’emancipazione del negativo nel teatro di Giuseppe Verdi (Mimesis, Milano 2013).
Mila pone tra virgolette il termine brutto. Come mai? Proviamo a sintetizzare: le brutte opere di cui parla non sono riducibili in toto ai loro aspetti non riusciti, alle loro componenti “brutte”; e recano in sé germi che Verdi svilupperà da par suo in seguito. Per questo restano degne dell’attenzione che appunto Mila, ma non solo lui, riserva loro. Un’attenzione puntuale, analitica, fruttuosa comunque. Soprattutto perché non manca di quella quarta, decisiva, dimensione dell’esperienza propriamente estetica, che “con animo perturbato e commosso” ne sa avvertire lo spessore qualitativo.