L'estetica e il materialismo.
Mila, Verdi e Totò, di Nicola Fano
L'editore Manni pubblica le lezioni di Massimo Mila su "Le opere brutte di Giuseppe Verdi”. Uno splendido esempio di genialità critica contro la moda del trash
C’è stato un periodo (intorno alla metà dello scorso secolo) in cui i critici – gli studiosi di qualunque materia dell’arte, della società e della cultura – si attenevano scrupolosamente a ciò che era dentro l’oggetto dei loro studi. C’era poco da volare, poco da fare illazioni, poco da smarcarsi dalla realtà: l’analisi doveva limitarsi alla materia concreta in questione. Io non so più – purtroppo – se questa fosse un’impostazione totalmente corretta nell’analisi dell’arte e della realtà, ma so che quel rigore manicheo ha prodotto dei geni assoluti che raramente hanno avuto simili dopo, quando il materialismo e lo storicismo critico sono finiti in soffitta. Ecco, se volete aver contezza di uno di questi geni, (e magari avete qualche familiarità con il teatro e con il melodramma) leggetevi un libro prezioso. Si intitola Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi, lo pubblica Manni (220 pagine per 17 euro) a cura di Tito Tonietti. Si tratta del ciclo di lezioni che il meraviglioso storico della musica Massimo Mila tenne nell’anno accademico 1963/1964 all’Università di Torino. Sono sei capitoli dedicati ciascuno a un’opera (vedremo poi perché brutta) di Giuseppe Verdi: Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, I Masnadieri, Il Corsaro, La Battaglia di Legnano. Si tratta di opere normalmente poco frequentate, fra quelle di Verdi, tranne forse I Masnadieri e Attila che proprio due anni fa, per il bicentenario della nascita del grande musicista, sono state riproposte in diversi teatri e per ciò, forse, oggi tornate d’attualità tra gli esperti e i melomani.
Comunque, sono opere “brutte”. Ossia minori in termini di qualità melodica, scritte in fretta, dove il clamore sonoro sostituisce la tensione drammatica musicale che ha fatto del Verdi di Rigoletto, Aida e altri capolavori uno dei giganti del teatro musicale mondiale. Mila, marxista, storicista, autore della più feconda Storia della musica tutt’ora in circolazione, tenne il suo corso universitario quasi per sfida. Da pochi anni, una pattuglia di critici musicali di vaglia (e Mila era tra loro) era riuscita a riportare l’attenzione su Verdi strappandolo dall’ignominia dell’ignoranza poetica e del popolaresco nel quale l’avevano ingabbiato i nipotini di Wagner e gli avanguardisti misti del primo Novecento.
Avete presente, no? Troppo facile, troppo emotivamente forte, Verdi, per essere un vero artista. L’arte, allora, consumata la grande fiammata delle vere avanguardie del Primo Novecento, aveva da essere fredda e complicata. Sennonché, non accontentandosi della riabilitazione del Verdi maggiore, un rigurgito di crocianesimo frammisto a un neo-dandysmo trash (che poi avrebbe dilagato), appunto in quegli anni cercava di accreditare come sublime anche la produzione minore di Verdi. Ma Mila si alzò in piedi e disse no: il Verdi brutto è brutto. E, anzi, per converso, proprio cogliendo le ragioni della bruttezza del Verdi brutto si capisce la bellezza del Verdi bello. Una affermazione lapalissiana ma all’epoca rivoluzionaria.
Se non fosse che il brutto e il bello sono due categorie della critica estetica, non della critica materialistica. Ed ecco la genialità certosina di Mila che seziona le opere in questione e ne dimostra l’inconsistenza, la cattiva qualità musicale, la modesta tenuta drammaturgica (per Verdi viene inventata la definizione di “drammaturgia musicale”) nel concreto, non sulla base del gusto personale. Attenendosi ai fatti. E con il solo scopo di dimostrare il contrario: ossia che le opere belle, a differenza di quelle brutte, sono belle. Che banalità!, direte voi. Leggete il libro e cambierete idea.
Ma io ho apprezzato queste lezioni anche per un’altra ragione. Negli anni Settanta dello scorso secolo, Goffredo Fofi e Franca Faldini riscoprirono Totò, fino ad allora considerato un volgare fenomeno da baraccone, una sgangherata macchina da soldi. Lo riscoprirono cogliendone i chiaroscuri, interpretandone la maschera tipica, specchio di un’Italia orrenda, quella che per metà l’applaudiva e per metà lo biasimava. Benissimo! Se non fosse che dato il successo critico (oggi si direbbe mediatico) di quella operazione, i nipotini di Fofi si lanciarono nella riscoperta di qualunque schifezza la cultura popolare avesse prodotto in Italia dopo la Seconda Guerra. Nel segno di una riedizione casereccia dell’estetica crociana. E ne nacque la moda del trash, del cinema spazzatura che per molti ha significato solo buoni affari, cattedre, posti da programmista-regista in Rai e onorificenze costruite sul nulla. A fronte, altri studiosi (stavolta materialisti, di quelli cresciuti analizzando solo quello che c’è dentro le opere) cercavano di smentire gli immondezzai sezionando migliori prove di “bellezza” nei progenitori di Totò, nei poveri comici del primo Varietà o poi dell’Avanspettacolo. Ma questi ultimi alla fine risultarono perdenti giacché le mode preferiscono l’agilità dei buoni affari alla pesantezza degli studi.
Ecco, questo libro di Massimo Mila, per proprietà transitiva, ci rende giustizia. Rende giustizia a quegli storici del teatro comico popolare che, come me, si sono rotti la testa a cercare di separare il brutto dal bello per dare senso al recupero complessivo della comicità popolare. Forse, come fa Mila, avremmo dovuto impegnare più energie a dimostrare la bruttezza delle pernacchie di Alvaro Vitali piuttosto che la bellezza delle pause di Beniamino Maggio. Ma è andata così: sarà per un’altra volta. Intanto, grazie Massimo Mila!