Matteo Bonsante, Dismisure

24-10-2010

I versi in bilico di Matteo Bonsante, metafisici e «antichi», di Enzo Mansueto

 

Il lavoro poetico di Matteo Bonsante (Polignano a Mare, 1935; a Bari dagli anni Settanta) si caratterizza, nelle tematiche e nelle poetiche, per una ricercata marginalità, da intendersi sia come lo stare ai margini, che come l’andare lungo il margine. Lo stare ai margini, innanzitutto, perché ostinarsi a scrivere e pubblicare poesia oggi è già di per sé, editorialmente parlando, un’attività marginale; ma scrivere per di più secondo i dettami di una linea che potremmo definire senz’altro metafisica o post-ermetica, al giorno d’oggi, è davvero una scelta eccentrica, nel bene e nel male.
La parola scavata, l’afflato del silenzio, l’aspirazione all’infinito appaiono merci inattuali nella produzione contemporanea estrema. Eppure, l’ostinazione e la convinzione che le liriche di Bonsante trasmettono, riescono a sdoganare, con quella paradossalità che è propria della vera poesia, tale attitudine. Un monstrum, una misura inadeguata, una dismisura, per giocare col titolo della nuovissima raccolta del poeta: Dismisure. Un’agile silloge di liriche inedite, introdotte da Stefano Guglielmin, e salutato da Giorgio Bàrberi Squarotti, a conferma di quanto scriviamo, come «un raro esempio, oggi, di poesia metafisica».
Tra versi brevi, frammentismo di sapore primonovecentesco, spazi bianchi pensosi e religiosi, questi versi paiono davvero parlarci da una vita anteriore alla poesia: «In un vasto etere di stelle senza tonfi / non echi, / non rintocchi, // solo attesa // - che s’apra la voragine della notte / e ci ricolmi di luce». Certo, il rischio di cadere in un ermetismo di maniera o persino in un verseggiare demodé è sfiorato, in più punti, come nella dichiarazione di poetica: «Nell’illimitato silenzio della notte / la poesia vince il segreto sostare / dell’Ora». Un rischio legittimo, poiché, lo sappiamo non a mode editoriali deve inchinarsi la Musa. E tuttavia, la tentazione gnoseologica, ontologica del poeta orfico, appare davvero stridente, nei correnti tempi di miseria, ricalcando uno stupore aurorale che sa di scuola: «All’alba, questa mattina, / ho conosciuto e perso il senso delle cose».
Chissà che accadrebbe se Bonsante intingesse un po’ il pennino nell’impiastro, anche linguistico, della storia e del quotidiano, forse davvero si realizzerebbe quella oscillazione ravvisata dal critico Daniele Maria Pegorari, il quale, ricordando il titolo della lontana raccolta d’esordi, Bilico (1986), riflette: «Bonsante, allora, riafferra continuamente la sua parola, la riporta in bilico, tra la luce della ragione e il buio dello smarrimento». Marginale, l’andare lungo il margine, per tornare a quanto su scrivevamo, sarebbe dunque la scrittura in bilico tra la luce del linguaggio neoermetico e lo smarrimento, pensiamo a un Mario Benedetti, di una parola nera e materica.