«L’uomo è la misura di tutte le cose», fa dire Platone nel suo Teeteto a Protagora, e precisamente lo è «di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono». Ma non possiamo non confrontarci anche con qualcosa d’altro, con quell’elemento della trascendenza e dell’eccedenza e, ancora, dell’alterità in virtù delle quali l’uomo è costantemente dinanzi a dismisure. Dismisure che, nella concezione poetica e non solo poetica che ne dà Matteo Bonsante in questo suo ultimo volume di liriche, non equivalgono ovviamente ad eccessi o a sovrabbondanze di sorta: si tratta piuttosto di un surplus di senso che offre un sempre nuovo angolo visuale a partire dal quale possiamo – ogni volta con rinnovato stupore (il taumàzein di aristotelica memoria: dalla meraviglia la filosofia! –, osservare la realtà e il mondo che ci circonda.
Del resto in Iridescenze si poteva leggere: «Il mio altrove è proprio qui, adesso. / Nell’attimo che vira in simmetria / d’amore con l’eterno»; qui l’eterno è una tinozza che si va disgelando e l’Altro è «la più vera luce» che illumina e non solo: scalda.
La natura e la cultura sembrano darsi appuntamento tra queste righe inedite, complice quel pensiero metafisico che Giorgio Bàrberi Squarotti ha richiamato a proposito della poesia di Bonsante. Metafisico dice Bàrberi Squarotti, post-ermetico aggiunge Enzo Mansueto (“Corriere del Mezzogiorno”, 24 ottobre 2010).
Come chiarisce Stefano Guglielmin nell’introdurre la silloge del poeta pugliese, siamo in presenza di una «convivenza di indefiniti infiniti» da cui sgorga la parola poetica (che Bonsante vede come «il palpito che mi solleva / fino a poterti sfiorare») e cui tutto, percezioni e significati compresi, pare tendere; e la versione speculare di tale convivenza, non a caso, è una «scala di infiniti diversi» che rimanda all’idea di un Essere plurale che non si fa definire né regolamentare in alcun modo.
Scopriamo così che «il senso delle cose» si può conoscere e insieme perdere all’alba, sull’orlo del farsi del nuovo giorno: mi ha fatto pensare a Sandro Penna che, tornando nella sua Perugia all’alba, legge la città dal finestrino di un treno che, di per sé, è già esso stesso viaggio verso l’altrove.
La poetica di Bonsante, come pure nei precedenti suoi lavori, emerge con forza contro le derive nichiliste di troppa letteratura e di troppa società contemporanee; lo fa in cerca di un orizzonte altro, appunto, che non si può e non si deve assottigliare per rendere grazie a questa o quella forma di capitalismo, di consumismo, di dominio culturale. Queste pagine rappresentano così l’opportunità di seguire da vicino un percorso, quello poetico-esistenziale dell’autore, che da una poesia minimale approda, attraverso un gioco di assenze e presenze e compresenze poetiche, a una poesia matura, a tratti anche un po’ sorniona, che certo ben conosce le sfumature di se stessa e delle parole in generale. Ecco allora che l’etere, ma anche un mandorlo e un ciliegio, persino una foglia e un esile filo d’erba, o il vento stesso che li agita, si propongono testimoni di una vita narrata (forse prima ancora che messa in versi) come piattaforma di incontri e di tenerezze.
Uno dei fari rimane tuttora la brevità, il lampo, l’intuizione sensibile verrebbe da dire con Novalis e i romantici; un altro è ancora una volta l’evocatività, vero e proprio dna dell’arte poetica e forse della scrittura tutta; questo senza dimenticare, però, lo spirito di fondo, che a mio avviso è e resta la ricerca. Di senso, di parole, di orizzonte come dicevo, ma soprattutto di espressione della propria curiositas e della propria sensibilità poetica. Anzi, a dirla tutta, poetico-mistico-filosofica.