Matteo Bonsante, Dismisure

01-01-2011

Una poesia di formazione, di Raffaele Urraro

 
Dismisure di Matteo Bonsante (Manni Editore, San Cesario di Lecce, 2010) non è una “raccolta” di testi poetici, ma il risultato di un itinerario, progettato a priori, con il quale l’autore si prefigge di scavare, con il solo strumento della parola poetica, nel terreno del rapporto tra l’Io e l’Eterno, nelle “dismisure” tra le loro dimensioni, nella dialettica convergente (mi si lasci passare l’ossimoro) tra le due Entità.
Da questo punto di vista, quindi, la poesia di Bonsante può essere considerata una poesia “di formazione”, vero e proprio viaggio della mente e del cuore nel territorio della conoscenza.
Ma procediamo con ordine, facendoci guidare dai due testi, il primo e l’ultimo, che hanno un chiaro valore di incipit e di explicit relativamente agli inizi e alla fine dell’avventura euristica compiuta da Bonsante.
Il primo testo (p. 9) ha un valore programmatico e racchiude bene in sé tutto il senso dell’indagine condotta nel libro: “Siamo sulla terra e nella mente / per vincere il senso di dismisura / che da ogni parte cinge. / Slegarci dalla gabbia del nostro / finito esistere e coglierti… /e coglierci… / nel filo d’erba che sbigottisce / al vento…”
Si tratta, dunque, di un processo di svelamento non solo della effettiva “dismisura” (termine topico del libro, ricorrente, fin dal titolo, con una insistita voluta frequenza) tra la nostra fragilità e la potenza dell’Eterno, ma anche della possibilità concreta di liberarci dalle pastoie che tengono incatenata la nostra finitudine e di proiettarci verso la conquista di quell’Altrove che per Bonsante è il posto che ci compete. “Cogliere” il senso della “dismisura” e della effettiva possibilità della conciliazione dei due Soggetti, della coincidentia oppositorum, svelare il problema e la possibilità della soluzione può avvenire anche posando lo sguardo indagatore “nel filo d’erba che sbigottisce / al vento”, nella semplice fenomenologia della natura generans.
L’ultimo testo (p. 71), invece, contiene la certezza acquisita lungo l’indagine: il poeta è sicuro che il suo cammino si concluderà in quell’Altrove al quale tende con tutta l’anima e la mente e con la precisa volontà di “indiarsi”: “Sprofonderò – presenza e vanto –  / nell’alto varco / che porta alla tua porta”.
Tra il primo e l’ultimo testo il senso più vero del libro e del cammino euristico effettuato dal poeta. Ed è un cammino lungo il quale l’Io, nel rovello della mente, indaga lucidamente le modalità del proprio essere e dell’essere Dio, modalità che determinano la differenza e condizionano la ricerca. E allora l’Io si rivolge in tutte le direzioni per cogliere dovunque un senso della presenza dell’Eterno, che è “nella luce del pensiero” (p. 15), “nel disteso attimo / e nell’alitare di un refolo di vento / o nel sostare nel mondo” (p. 20), nel “ciliegio in fiore” (p. 25), nella “mattina di azzurra brezza” (p. 28), nel “mandorlo”e nei “prati fioriti” (p. 36), nel “perenne fluire della luce” (p. 50), “nel tempo e nelle cose” (p. 52), “nello scorrere degli istanti / che passano” (pag. 53).
Ma questo processo di “visione” è frutto del pensiero che pensa e che si pensa: “Il pensiero che contempla se stesso / è parte di Dio. È in Dio” (p. 58), ed è per questo che è capace di cogliere la “differenza”, la “dismisura” che, in sostanza, è il senso della propria finitezza e della propria impotenza di fronte a Dio: “Essere dismisura / è chiaro segno della mia / terrestrità” (p. 16).
E allora? Sollevarsi dalla propria pochezza per annullare almeno in parte la differenza è “impresa impari” (p. 17), perché “in quest’ora tarda, / mi sento un labile fruscio, / un leggero soffio, / l’istante che compie / il sereno profilo delle cose, // e della notte che passa” (p. 21).
Certo, percepire il senso della “dismisura” è doloroso, procura una “ferita” che può essere “lenita” soltanto dalla capacità dell’uomo di fissare comunque il suo sguardo verso l’Alto e, nel contempo, da una “carezza più azzurra” da parte di Dio (p. 61). E difatti proprio uno slancio verso l’Alto può consentire la percezione di Dio, ma è indispensabile il suo aiuto perché l’incontro avvenga, la sintesi si realizzi, la dismisura scompaia: “Se mi apparto nel piccolo me / chiamato io, come posso cogliere / Dio che è somma infinità? // E l’alta infinità chiamata Dio / come può rapportarsi al piccolo me? // L’assurdo è solo apparenza / perché – dal basso – le due verità / non sono, ahimé, confrontabili. // Ma si ricompongono se – dall’alto –  / si contempla questo nostro mondo. // Esiste il finito perché esiste Dio. / Ed esiste l’infinito perché esisto (p. 30).
Poi vi sono le contraddizioni laceranti che scuotono il poeta che opera per la sintesi, ut unum sint: “Quando muore un innocente / bambino / un bruciante moto mi assale. // Ma al fondo di me stesso / subito un luccichio, ecco, appare. / Mi rasserena. // E mi è conforto che anche questa / dolente contraddizione si / ricomponga altrove (p. 39).
Ecco: è proprio lì, in quell’”Altrove”, che il poeta ha sognato, ha sperato, ha intravisto o ha visto concretamente che la “ricomposizione” tra l’uomo e Dio avviene, il che costituisce anche il senso più importante della ricerca di Bonsante e, quindi, delle Dismisure.
Ma qual è il mezzo di cui il poeta si serve per sollevarsi dalla sua “terrestrità” e proiettarsi verso quell’Altrove che è il fine ultimo della sua ricerca intellettuale? È la parola. E il poeta le attribuisce un valore di ricerca e di rivelazione, un valore sacro, perché è l’unico strumento che gli consente l’approccio e il disvelamento della verità. E difatti il poeta parla di “tempio della Parola” (p. 35), sottintendo non soltanto il valore religioso di essa, ma anche, con la sua maiuscola iniziale, il valore di entità assoluta. La Parola assume quindi il significato di un Verbum che rivela e disvela. Questa interpretazione è suffragata dall’importantissimo testo di p. 18: “Se la parola è il palpito che / mi solleva / fino a poterti sfiorare, / vorrei oltrepassarla per osservarmi / nel tuo essere senza forma / né nome / in una condizione di dismisura / del mio sguardo. / Ma torno a contorcermi, / a piegarmi, a parlarti, / a essere freccia-parola che / slega in parte / il mio/tuo essere qui, / e altrove. // – Mi turbina la mente”.
È la parola che apre al poeta orizzonti prima inesplorati, che lo solleva a vertiginose altezze: egli vorrebbe trascendere la stessa parola per unirsi a Dio, ma avverte quella “dismisura” che lo costringe a prendere atto della differenza. Sicché “torna a contorcersi”, mentre “gli turbina la mente” e si agita per sua insufficienza a percorrere tutti i gradini dell’ascesa. Segno che all’Eterno non è possibile unirsi, è possibile solo disperdersi in Esso con la nostra finitudine.
Ma ormai il viaggio della mente di questo Ulisse moderno, tormentato e pur tenace nel suo tentativo di appagamento, è compiuto, e se l’Eterno non è stato ancora conquistato, tuttavia è ormai posseduto nella mente a livello concettuale, e allora si tratta di fare l’ultimo passo, quello risolutivo, che permette di raggiungere quell’Altrove nel quale ogni desiderio smette di essere tale per lasciare lo spazio all’appagamento e, dunque, alla pace totale dello spirito. Perciò ha un significato davvero “conclusivo” quell’apologo posto a chiusura del libro, ma extra librum, nel quale il poeta-passante può finalmente dire: “ritornare all’Eterno, portando in dono il senso della terra” (p. 75): il poeta ritorna lì dove è il Principio del cammino, ma vi ritorna dopo essersi bagnato nella terrestrità, cioè nelle sofferenze e nei dolori di questa nostra condizione umana, e la porta in dono all’Eterno quale ricompensa – o “mercede” , direbbe il Manzoni – per essergli stato permesso di effettuare la sua “conquista”.
E allora ha davvero ragione Giorgio Bárberi Squarotti quando, come si legge sulla quarta di copertina, afferma che “Dismisure mi sembra un raro esempio, oggi, di poesia metafisica”. Anzi, ritengo che si possa addirittura parlare di poesia teologica, non soltanto perché il tema, come si è detto, è quello della ricerca dell’Eterno commisurato alla propria finitezza, ma anche per quel linguaggio che, come appare anche dai versi citati, presenta una connotazione particolarissima: è il linguaggio dei temi alti, oscillante tra connotazioni filosofiche e teologiche, anche se qui non è né un filosofo né un teologo che parla, ma un poeta che, ovviamente, spesso scioglie le briglie alla sua identità e si avventura nel territorio delle descrizioni idilliche e liriche che, però, risultano sempre adottate a supporto dell’indagine fondamentale.