Matteo Bonsante, Dismisure

01-01-2011

Oltre la presenza fisica delle cose, di Gianmario Lucini
 
Con Dismisure prosegue la vena poetica quasi monotematica di Bonsante, che fin dagli anni ’50 ha centrato la sua ricerca sul tema dell’Essere. In Iridescenze, la sua penultima raccolta, abbiamo evidenziato come il suo modo di scrivere in qualche modo si radica nel pensiero filosofico, nella metafisica, non disdegnando sotterranee connessioni con il mito e trasfigurando questa materia in una vena poetica praticamente inesauribile.  Giorgio Bàrberi Squarotti definisce Dismisure un “raro esempio, oggi, di poesia metafisica” e siamo d’accordo, nel senso che la poetica di Bonsante va “oltre” la presenza fisica delle cose e non solo, ma identifica le cose stesse, gli ònta, il mondo e l’uomo come continuazione quasi fisica dell’Essere.  In questo senso ci azzarderemmo a dire che l’indagine di Bonsante, che è insieme speculativa e poetica, non solo si potrebbe includere nella metafisica della trascendenza, ma anche nella metafisica dell’immanenza.  La visione dell’Essere insomma in un certo senso coincide con la visione delle cose, nel senso che le cose sono come assorbite dall’Essere e ne fanno parte, pur non esaurendo la totalità dell’Essere (se infatti la esaurisse, potremmo parlare soltanto di metafisica dell’immanenza). Il cogliere le cose è pertanto, in un certo senso, cogliere l’Essere stesso, come esplicitamente viene detto nella prima poesia: e qui saremmo in una metafisica dell’immanenza; ma poi scrive (a pagg. 15, 19, 20, ecc.) riferendosi all’Essere nei termini tipici della filosofia trascendente.  L’Essere, insomma, è tutto ciò che ti prova che tu sei, perché ne fai parte. L’ispiratore di questo impianto poetico-filosofico, esplicitamente indicato, è Meister Eckhart, il grande filosofo medioevale vissuto nei decenni a cavallo fra il 1200 e il 1300, ma troviamo tracce anche del pensiero dei grandi mistici medioevali.  Da Meister Ekhart Bonsante mutua in modo esplicito l’immagine dello sguardo di Dio come sguardo rovesciato verso se stesso e insieme nostro stesso sguardo, così come l’idea della pervasività divina rappresentata dalla lingua di fuoco, e molti altri spunti.
Delle diverse influenze della particolare “filosofia” di Bonsante, ne dà ampia e lucida nota Stefano Guglielmin nella sua prefazione. 
Nonostante la nutrita serie di riferimenti filosofici che si possono trovare nella sua poesia, essa rimane però ancorata a un senso di meraviglia per la bellezza del mondo e della vita, che nasce da un’ispirazione diversa, che non ha nulla a che fare con la speculazione ma piuttosto con la radice aurorale del meravigliarsi, una radice spoglia di ogni artificio letterario ma originata da un entusiasmo spontaneo e naturalmente positivo, come quello dell’infanzia.  Questo è il vero volto della sua poetica che bisognerebbe percepire, al di là di ogni filosofia o di ogni metafisica.  E’ insomma questo “bambino dotto”, inedito nella poesia contemporanea, che qualifica la poetica del Bonsante come poetica della bellezza tout court, attingendo ad un’ispirazione lirica profondamente autentica e scevra da ogni estetismo (il verso è infatti asciutto, essenziale, il lessico mai ricercato o virtuosistico, la prosodia segnata da una sobria musicalità), bellezza che viene evocata dai fenomeni più semplici e dalle cose più naturali, come il “filo d’erba” nella primissima lirica.  Nulla di irenico dunque, ma tentativo di passare “oltre” il divenire, oltre la storia e il tempo, in quella zona dell’intuizione e del linguaggio che soltanto può alludere e non certo filosofare.  Per questi motivi, al di là delle etichette e delle considerazioni che si possono fare, la poesia di Bonsante mi sembra una delle più originali fra i contemporanei, solida e compatta nelle sue tematiche, dotata di un linguaggio essenziale, incisivo e di una ispirazione autentica che riesce a mettere insieme immanenza e trascendenza, divenire ed eternità, pensiero e sentimento.