Imperdonabile, di Massimo Morasso
Ho scritto di recente a proposito di Cristina Campo: «Trattare cose universali come questioni personali serve a ricordare un punto nodale, quasi inconcepibile, ormai, per l’Everyman poetante postmoderno: la poesia senza consapevolezza, crescita e intensificazione spirituale è o poesia mediocre, e dunque non-poesia, o ingannevole, come tutto ciò che è inessenziale. Un discorso fondamentalmente autocentrato di cervelli che non possono neanche avvicinare il disegno di una mente, come quella di Vittoria Guerrini e di pochi altri “imperdonabili”, che cerca di far coincidere la parola con il suo seme nascosto - leggendola sempre di nuovo come un ponte, sorta di crocevia spirituale che segna, per testimoniarli, i riti di passaggio di un cammino teso verso le dismisure dell’Oltre».
Matteo Bonsante è uno di questi imperdonabili. E Dismisure, come racconta con intensa sottigliezza Stefano Guglielmin in sede di introduzione e come recita Barberi Squarotti nella quarta di copertina, è per davvero un raro esempio, oggi, di poesia metafisica.
Viviamo in un’epoca complessa, aperta alle (s)ragioni di soggetti morali ed estetici plurali, in cui la poesia ha assunto tutte le forme del possibile, e i versi così sfacciatamente borderline che animano questo piccolo, insolito, sapientissimo libro ci ricordano che bisogna continuare a fare anche della poesia mistica, perché (ribaltando i termini del detto di Unamuno) convergere è convertire.
Fin dal suo primo libro, Bonsante non ha mai avuto paura di innervare la propria scrittura di tensione intellettiva e afflato meditativo e di cantare senza belletti minimalistici affinché la potenza del reale torni a imprigionare i suoi cieli, l’assoluto a trasmutare la sua terra. Tale intenzione, spirituale nella sua natura, poetica nella sua realizzazione, si carica adesso in senso ulteriormente, quasi “eversivamente” emblematico nel tentativo di liberare il nostro mondo sublunare dalla sua presunta dipendenza dall’io.
Da sempre la poesia, per il poeta barese, è nostalgia dell’altro mondo, o non è. Che poi l’altro mondo sia anche qui, nei segni del paesaggio e nella vita preumana e divina del mondo creaturale, questo ovviamente non gli sembra discutibile. Le dismisure evocate nel titolo di questa sua ultima raccolta e inseguite in quel territorio di confine in cui il dicibile si scontra/incontra con il paradosso dell’ineffabile, danno conto proprio di questa dialettica: sono “dismisure” che pervadono l’intero sospese in uno spazio di mezzo tra qui e là, tra tempo ed eternità, tra umano e divino.
Prima e perfino al di là degli esiti stilistici, giova rilevare come l’infinito sia la “materia” e la cassa di risonanza di un gesto poetico che punta con rigore e quieta, cogitabonda pervicacia a coltivare l’artigianato della parola come sintesi dell’atto immaginativo. Il che, vale come ulteriore testimonianza di un certo risveglio della poesia onesta, dopo le grandi ubriacature del secondo Novecento.