Matteo Bonsante, Dismisure

01-07-2011

La poesia metafisica, di Davide Puccini

 
In un sintetico giudizio riportato in quarta di copertina, Giorgio Bàrberi Squarotti presenta queste Dismisure di Matteo Bonsante come "un raro esempio, oggi, di poesia metafisica", e si tratta di una definizione pienamente azzeccata. Fin dai primi testi di questa raccolta così compatta che si dovrebbe piuttosto parlare di poema per frammenti, a cominciare dal componimento di apertura Siamo sulla terra e nella mente posto in limine, si chiarisce il senso del titolo. La "dismisura", parola che torna spesso nel corso dell'opera come insistente Leitmotiv, è quella tra la piccolezza dell'io e la grandezza di Dio e dell'universo, ma il contatto tra entità altrimenti incommensurabili è consentito dal fatto che l'io, derivando direttamente da Dio, può comprendere con il pensiero l'intero universo e lo stesso Dio: "siamo in te come nel Sole / il giorno"; "Esiste il finito perché esiste Dio. / Ed esiste l'infinito perché esisto"; "Il pensiero che contempla se stesso / è parte di Dio. È in Dio. // Se guarda fuori di sé è strappo, / mondo. Divenire". La dismisura, insomma, può essere colmata perché in realtà la natura dei due enti, pur così sproporzionati, è la medesima e l'eternità brilla nel nostro sguardo quando, uscendo da noi stessi, riusciamo a spingerci oltre le cose: "Libertà d'essere, senza me stesso, / tutte le cose. Oltre le cose". Il difficile passaggio, il varco verso l'Altro (e il montaliano varco compare in effetti ripetutamente, benché in un contesto molto diverso da quello del poeta degli Ossi), è intravisto attraverso labili epifanie, in splendore di albe come nel semplice filo d'erba irrorato di rugiada o nel cinguettio di un passero, in un complesso gioco di rimandi e di corrispondenze. Il mondo non è solo apparenza, ma anche traccia luminosa che conduce all'eterno: "In rorida marcia verso l'io / più colmo, verso Dio"; "Il mondo – rintocco dell'eterno, / non è solo apparenza, fugacità. / Nel suo fondo è Dio stesso: / vita, amore, beatitudine".
Sembrerebbe in contrasto con questa armonia universale la presenza così lacerante del male nel mondo, che da sempre ha posto inquietanti interrogativi. Bonsante non manca di affrontare il problema, risolvendolo in una dimensione diversa e superiore a quella umana: "Quando muore un innocente / bambino / un bruciante moto mi assale. // Ma al fondo di me stesso / subito un luccichio ecco, appare. / Mi rasserena. // E mi è conforto che anche questa / dolente contraddizione si / ricomponga altrove". Come strumento privilegiato del passaggio tra io e Dio si pone la poesia: "Nell'illimitato silenzio della notte / la poesia vince il segreto sostare / dell'Ora. // Gli astri, emersi dall'eco profonda della terra, / stillano sillabe per il vivido / ascolto dei viventi". A lettura ultimata, si ha l'impressione che in tutto il libro Bonsante svolga con perizia una nutrita serie di variazioni sullo stesso tema, in un progressivo, vertiginoso crescendo di astrazione, che però talvolta si condensa nella fermezza memorabile della massima: "Come la luce non conosce / il buio, così l'eternità non conosce / il nulla", "Sprofonderò – presenza e vanto – / nell'alto varco / che porta alla tua porta". L'Apologo conclusivo dialogato, quasi un'operetta morale leopardiana in miniatura, chiude in tutta semplicità la serrata inchiesta metafisica, ma ribadendo lo stretto legame che unisce finito ed infinito: come dice il passante, "ritornerò all'Eterno, portando in dono il senso della terra".
Il dettato, sempre nettamente scandito, si adatta alla complessità della materia trattata con una sintassi frantumata in brevi periodi, non raramente sospesa in stile nominale o basata su verbi di modo indefinito, quasi a rendere fisicamente la difficoltà di una riflessione poetica che deve procedere per improvvise illuminazioni, per gradi e con passi malcerti dal fondo dell'essere verso la luce dello spirito.