Michele Battaglino, Radici e ali

01-06-2007

Gli spazi di Battaglino, di Gabriella Donati

Radici e ali è un libro intenso, di riflessioni sulla fatica ma anche sulla bellezza del vivere, proposte attraverso il linguaggio dell’esperienza quotidiana, tessuta filo su filo. La materia è suddivisa in tre sezioni che, pur mantenendo la loro specificità, sono omogenee fra loro e sviluppano un discorso unitario e continuo attraverso tempi e tappe ben individuati.
Due sonetti, uno in apertura, l’altro in chiusura, incorniciano il libro e ne delineano il senso: dalla ingenua adesione al mondo, tipica dell’infanzia o di un tempo ormai passato (Bastava), alla consapevolezza che il pur “inutile sospiro nell’infinito mare” vale la pena di essere vissuto (Ora che siamo qui).
C’è nei due sonetti una sorta di suggello leopardiano: il “navigare nello spazio infinito”, una specie di “dolce naufragar” giovanile, della prima poesia, è ben diverso dall’ “infinito mare” del componimento di chiusura, dove nella paronomasia “inutile-infinito” si compie consapevolmente il destino dell’uomo. Del primo sonetto è molto interessante il giogo degli enjambements, che produce un effetto, per così dire, di controtendenza e di freno, che riassorbe la contabilità trasognata delle rime. Felice è l’ambiguità che si crea nel verso finale, dove sono “il tordo” e l’io poetico insieme a “inebriarsi di briciole di niente”.
In Ora che siamo qui sono presenti anche echi montaliani (il Montale di A mia madre) fin dalla memoria incipitaria (“Ora che”) per proseguire con “se altro saremo (…) / come ritrovare / i tuoi occhi lucenti, il tuo respiro, / le tue mani” che richiamano, pur nella inevitabile diversità dei contesti (ma meno distanti di quanto sembri…), “quelle mani, quel volto, il gesto d’una / via che non è un’altra ma se stessa…”.
Il richiamo a Leopardi e a Montale, i due poeti che hanno così profondamente indagato il senso del vivere, non è certo casuale, ma costituisce un riferimento costante, una consapevole allusione, che accompagna il lettore lungo il percorso testuale, come vedremo, a fianco di altri echi della nostra migliore tradizione letteraria otto-novecentesca.
La costruzione del senso di Radici e ali passa preferenzialmente attraverso la materia autobiografica, ora fissata nel ricordo di gesti e immagini del passato (Reminiscenze è il titolo della prima sezione), ora rielaborata per essere riproposta in un vissuto più universale, con intenti meditativi e problematici (soprattutto nella seconda sezione, Oltre il visibile, titolo che sostituisce quello originario, Palingenesi, più scopertamente programmatico e personale); ora, infatti, filtrata attraverso un itinerario fatto di luoghi e persone, che va a comporre il paesaggio della maturità, nella terza sezione, Pisa e dintorni.
Il titolo, che rimanda a un componimento della prima sezione, propone una metonimia ossimorica che in prima istanza ci appare di una trasparente leggibilità, ma che, come vedremo, si complica sottilmente nelle sfaccettature del discorso poetico: nella loro trasparenza simbolica, le radici richiamano la terra e la pianta che da essa si alimenta e cresce, legata al luogo dove è nata; le ali sono dell’uccello che vola nell’aria, che si allontana dal nido e ad esso fa ritorno, ma che senza gli spazi aerei non potrebbe vivere.
Ora, nel componimento eponimo questa duplice dimensione non è antitetica come sembra, ma scaturisce dallo stesso ambito: “la voglia di volare” della seconda strofa è data come “segno tangibile di appartenenza”, altrettanto quanto il radicamento linguistico (“la cadenza apulo-lucana / l’affiorare istintivo di proverbi / e lessemi dialettali” della prima strofa): come la lingua materna, così anche la sete di conoscere e di sperimentare nascono da quella “fitta barriera di monti”. Le due dimensioni producono un movimento duplice di ritorno e di allontanamento dal luogo d’origine, ma entrambe compongono il senso di una identità fortemente legata ai luoghi nativi.
La prima sezione, la più lunga (27 componimenti a fronte dei 21 della seconda e dei 20 della terza), è molto coesa, tutta centrata com’è sul tema del ricordo – come del resto dice il titolo, Reminiscenze – variato nelle diverse modulazioni soggettive della nostalgia (Prati di periferia), del distacco (Della partenza forzata ricordo), della persistenza (Ancora, caratterizzato da un acrostico), o del rimpianto sconsolato (La cancellata).
I temi provengono da un vissuto che in prima istanza è autobiografico, talvolta costituito da esperienze minime, dalle quali tuttavia emerge un senso riposto, addirittura epifanico (Dove il sentiero fra i rovi, Il quartetto, Mio nonno), altre volte si tratta di esperienze molto personali (Altri effimeri accadimenti, con acrostico); ma in filigrana, attraverso la memoria di gesti, suoni, spazi e tempi legati alla dimensione soggettiva, i componimenti parlano anche di un mutamento culturale che ha innervato la storia comune degli Italiani nel secondo Novecento (Vacanza estiva, La prima volta il mare, Nitrire di puledri volanti, Il vallone dei Greci, Compagna di giochi, Lagane e ceci). E quest’ultimo è, senz’altro, un motivo non secondario del fascino che acquista la lettura.
Dove il sentiero fra i rovi apre in modo molto significativo questa prima sezione, segnalandone il percorso di ricerca del senso dell’esistenza a ritroso nel tempo, nella dimensione mitica dell’infanzia e giovinezza, o in quella, altrettanto mitica ma anche storica, di una società contadina ormai morta. Il realismo dell’ambientazione convive, in questo testo, con una forte allusività, i cui segnali non a caso sono dati dalle reminiscenze del lessico (rovi, annulla, maglie) e di certe espressioni: “una via di scampo?” a confrontare con “il varco è qui?” de La casa dei doganieri. Infatti la problematica è quella della ricerca del senso delle cose e il finale della poesia ricorda, pur con delle differenze, Schiappino dell’ultimo Montale, per il senso di ridimensionamento dato a tale ricerca.
In questa prima parte gli spazi sono costituiti prevalentemente da squarci campestri, che, pur essendo spesso oggetto di rievocazione nostalgica in opposizione alla negatività del presente (“era terra di nessuno / (prati ampi di periferia) / per chiassosi giochi infantili”), non si concedono, però, facilmente a un idillio di maniera, così fortemente caratterizzati come sono dalla presenza dell’uomo, dall’esperienza della vita quotidiana, dalla fatica e dalla concretezza del mondo contadino (“Vacanza estiva era trascinare / alle biche covoni sotto il sole”); sono luoghi che convivono con aperture spaziali prodotte dalla fantasia “che mondi / apriva radiosi senza fine”.
Nello spazio ricreato dalla memoria sono fitte le presenze animali, ora semplicemente connaturate al paesaggio rurale (“vasto campo di stoppie con quaglie / e scriccioli a beccare chicchi di grano” in Nitrire di puledri volanti), ora compagne di giochi, come la donnola “catturata ancora lattante sull’aia”, od oggetto di ardue imprese infantili come ne Il vallone dei Greci, dove “lo scolaro incosciente sfuggito / al controllo di casa si arrampicava / sui rami più alti dei pioppi / a osservare estasiato nidiate / di piche implumi…”; ora infine vere e proprie protagoniste di componimenti a loro dedicati, come ne Il quartetto, dove attraverso l’apparente oggettività della descrizione si riesce a cogliere il senso dell’epifania, che l’attenzione alla vita della natura può svelare e che non si può fare altro che registrare.
Infine, nello scenario della terra nativa, nei suoi antichi ritmi lavorativi, sembra rimanere scolpita anche la memoria di secolari lontananze (Aglianico, Arsinoe) per prolungarsi nella partecipe immaginazione del poeta.
Matrice strutturale di molti componimenti della prima parte è uno schema oppositivo, antitetico, che richiama anche nel significante il dualismo di fondo della sezione, il radicamento alla terra d’origine e la voglia di sperimentare altre dimensioni (Radici e ali), il confronto fra il passato e il presente; è uno schema che si attiva secondo varie modalità.
Qualche esempio. In Prati di periferia è presente un’opposizione di tempi e spazi che dà luogo a scelte semantico-lessicali antitetiche, che si fronteggiano nelle due terzine iniziali: “muto-chiassosi”, “muraglie-filari sterminati”, ecc. per costruire il senso di definitivo cambiamento dei territori dell’infanzia.
In Non più animate da voci e tonfi l’antitesi, annunciata dall’incipit, è tutta concentrata nella prima strofa, dove compaiono “le case rurali” che, appunto, “non sono più animate da voci e tonfi”, “ma abbandonate e dirute”.
In La cancellata le modulazioni tematiche leopardiane vengono riproposte attraverso l’opposizione tra la linea semantica degli spazi chiusi, che davano “ali alla fantasia”, e quella degli spazi aperti dove “spiccare il volo è un’impresa”. L’opposizione semantica si formalizza nella scelta strutturale delle due strofe (l’unità strofica ricorrente, e caratterizzante i novi componimenti di cui questo è il primo, è formata da sette versi, proposti in componimenti di due strofe ciascuno) dedicate la prima alla rievocazione del passato, la seconda al presente-futuro. La metafora del volo, presente in entrambe, conferisce unità alla poesia.
Questo componimento ha un forte rilievo tematico, costituendo una sorta di mise en abîme, dove si legge il richiamo ai significati di fondo del libro: oltre al richiamo scoperto al componimento eponimo, troviamo qui proposte espressioni che rimandano rispettivamente ai sonetti di apertura e chiusura del libro. Mi riferisco da una parte a “navigare nello spazio infinito / negli abissi costruiti dalla mente” del primo sonetto, richiamato dalla proiezione nel sogno della prima strofa: “L’angustia dava ali / alla fantasia / che mondi / apriva radiosi senza fine”; e, dall’altra, a “è appena un sospiro / inutile nell’infinito mare” del secondo sonetto, che rimanda alla disillusione di “tutto lo spazio aperto è inconsistente”.
In Mio nonno, posta al centro della breve silloge di nove componimenti che, tutti formati da due strofe di sette versi, costituiscono una specie di poemetto della memoria mitico-naturalistica, viene riproposto in due quadri visivi, ben pausati dallo stacco della strofa, il miracolo dell’oggetto ritrovato, così come è vissuto dal bambino. Ma, direi, proprio grazie alla pausa metrica, si riesce anche a cogliere altro significato: mentre la prima strofa tratteggia con lessico, concreto e favoloso insieme, il quadretto del nonno che “paziente a gambe / divaricate sulla bocca del pozzo / - gigante eroe uscito dalle fiabe - / palpeggia il fondale con la lopa / uncinata” alla ricerca dell’oggetto; nella seconda strofa si avverte che stiamo assistendo anche ad altro: non è solo “la mia maglia nuova arancione / grondante d’acqua e di luce” a spuntare dalla “voragine scura”, ma è anche (con una suggestione tutta montaliana) il ricordo stesso che emerge dal profondo.
La prima volta il mare. Dei nove componimenti è quello nel quale lo schema antitetico appare utilizzato in modo più netto: da una parte il significato standardizzato del vocabolario, dall’altra il vissuto personale.
Il centro emotivo della prima sezione è costituito da Nitrire di puledri volanti, il componimento più lungo dell’intera raccolta (una lunga stanza di 22 versi, più una terzina isolata), tutto sospeso fra il mondo visionario (“aggirarsi di monachicchi burloni”) e la concretezza quotidiana del mondo rurale tradizionale (“Ancora scacci i tacchini dall’aia / setacci farina impasti pane”), che felicemente intersecano e conferiscono intensità e continuità di vissuto alla fine della vita. L’andamento ritmico del testo è imperniato sul ripetersi dei verbi all’infinito (“Nitrire-aggirarsi-annuire”), su rime a distanza (“burloni-capitoni”) e rime al mezzo (“parenti e badanti”, “scacci-setacci”) o su richiami fonici proposti in un gioco di discreta dissimulazione, come la paronomasia con rima a distanza di “volanti-volti vaganti”.
Sulla seggiola sgualcita. Segna il congedo dal viaggio nelle reminiscenze e l’apertura al nuovo viaggio, quello della palingenesi, della seconda parte. Ritorna, implicitamente allusiva, la scelta metrica della strofa di sette versi. Piace il tono dimesso, che prende in prestito echi montaliani: “vi penzola una manica di pigiama” richiama “ora ho ancora una manica” di La mia musa.
La seconda parte, Oltre il visibile, appare più scopertamente programmatica rispetto alla prima, sia in poesie-emblema come Spalanca la finestra e vede, dove attraverso la metafora del temporale purificatore si ripropone l’esigenza di un rinnovamento e di una rinascita; sia in componimenti-manifesto come Verso temi roventi, dove è indicato il senso stesso del fare poesia: “il poeta vivo si sente / se può offrire un’ancora / se la speranza accende / in qualunque latitudine”.
Lo schema oppositivo è ancora operante nei componimenti di questa sezione, che si presentano come unità strofiche di varia lunghezza – dai 10 ai 18 versi – e in alcuni di loro raggiunge un “tutto fuso” davvero piacevole, come in Dove sono sconfinati i fantasmi e Nella vasca d’acqua schiumosa, dove, attraverso la ripresa del sintagma “mi ritorna anche”, si veicola l’opposizione forte alle brutture del mondo moderno; un’opposizione che porta ancora una volta (in entrambe queste due poesie) a guardare al passato e alla terra natale.
Ma l’esigenza di rinnovamento coinvolge anche il presente e il futuro. Le spinte in avanti si ritrovano in diverse poesie, variamente modulate, improntate alla fatica e all’ineluttabilità dell’andare avanti, come nella leopardiana Bisogna andare avanti in ogni caso. Di questa poesia piace, fra l’altro, l’inserimento di un lessico tecnico (“strumenti di bordo / antenne e vettovaglie”) nella compagine semantico-immaginativa tutta leopardiana, un vero e proprio omaggio, si può dire, al Leopardi di Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sia per l’immagine della vita come cammino affannoso, sia per il richiamo alla luna. Da un verso di questo componimento è tratto, fra l’altro, il titolo della sezione (Oltre il visibile tende la vista).
Ma dalla ricerca, dallo sguardo “oltre il visibile”, si può arrivare alla salvezza? Se sì, sembra che quest’ultima la si possa trovare negli accadimenti minimi, quelli che riconciliano con la vita (Abiti e gesti rituali dimettere), nello sguardo che sa vedere (Dall’argine brullo), nella ricompensa all’attesa (Ove tutto è predisposto), al di là degli stessi intenti programmatici (“Nel fondo più riposto… ove c’è il senso che illumina” in Non la superficie inanimata), e al di là degli aneliti alla “leggerezza della piuma sospesa nell’aria” (Su questo terrazzo provare). Mi sembra si possa concludere in questo senso, visto che i versi di chiusura della sezione Oltre il visibile suonano così: “È un cumulo di errori la vita: / bravura è solo limitarne il conto”.
La sezione Pisa e dintorni si presenta come un maturo bilancio, dopo il travagliato cammino percorso da parte di chi, interrogatosi a lungo sul senso del vivere, saggiamente sceglie la prospettiva della descrizione del mondo, che non significa affatto rinuncia a capire, ma propone una filosofica accettazione dell’io ne mondo, sulla scorta di una saggezza epicurea, oraziana. Non a caso sono tutte poesie ambientate nello scenario dove si svolge la vita attuale dello scrivente, quella parte della Toscana, e in particolare Pisa, in cui l’incrociarsi degli eventi ha destinato il poeta. Sono luoghi densi di storia e di reminiscenze letterarie, lontani certo dal mondo affettivo dell’infanzia, nei quali si può, tuttavia, promuovere una nuova, pacata e matura palingenesi.
Le liriche hanno tutte un impianto narrativo-descrittivo: il ricordo di momenti vissuti si inscrive con naturalezza nei contorni del paesaggio e il ritmo, lento e disteso, non più affidato alla necessità strutturale delle opposizioni, è sapientemente puntellato da rime e rime al mezzo, che assecondano l’andamento piano e discorsivo, talvolta prosastico, dei contenuti.
Fra queste spicca la prima, L’Arno dal Ponte di Mezzo, bella descrizione metaforica: è spia del significato profondo del testo, fin dall’inizio, quel “alle spalle per sempre il Falterona”, che lascia intravedere il senso del distacco alla nascita, e ci introduce al viaggio del fiume-vita fino alla fine, dove “purificata / la leggerezza ritrova / la sua voce / i sapori dell’antica sorgiva”. Le rime al mezzo (affannoso-vischioso, novembrino-cinerino, dispare-regale, spalancati-incollati, adagiata-purificata) contrappuntano tutto lo snodarsi della poesia e del fiume, fino alla foce.
Notevoli per la misurata emozione del ricordo sia l’elegiaca La rocca di Federico sia l’arguta Uniti da Pasternak ed anche il quadretto di sapore oraziano, tutto giocato sull’opposizione dentro-fuori, di TV spenta.
Se certe presenze della tradizione poetica sembrano quasi scontate, suscitate, come sono, dal paesaggio e dai riferimenti naturalistici (mi riferisco a un certo preziosismo di sapore dannunziano e pascoliano, evidente per esempio in Marina di Vecchiano: “tra aghi di ginepro e aromatico / cisto fino alle dune selvagge. / Colonie di sule e beccacce / sulle pannocchie d’ammofila”), più connaturata all’io poetico è la robusta eco sabina, che spunta ora nella consonanza con le persone nel paesaggio naturale, campestre (“e io mi sento in pace / solidale / col mondo esterno vario / persona / tra persone comuni vitali” sempre in Marina di Vecchiano), ora nell’immaginario quadretto di varia umanità in S. Piero a Grado (“pescatori e schiavi abbruttiti / e mercanti navigati / nel magazzino o atrio affollato”), ora, infine, nella dichiarata partecipazione che conclude il componimento intitolato Le piagge: “anche noi partecipi a guardare / la vita che in forme molteplici / s’incarna in dimensioni umane autentiche”.
È questa la dimensione più autentica che il poeta sembra volerci consegnare in quest’ultima sezione del libro, insieme a un guizzo di vitalità, che, ancora una volta, significativamente nell’ultimo componimento della sezione, è desunta dal paesaggio natio, contrapposto “all’afa o l’umidiccio di queste / città che taglia il fiato”. È la vitalità del vento primaverile, la voria, in dialetto, che “alle fanciulle a giro / solleva la gonna increspa la camicetta / e gonfia nei campi le spighe”.
E a noi piace, in chiusura, identificare il poeta con l’immagine che lui stesso ci consegna in quest’ultimo componimento della sezione, un’immagine di antica saggezza e vitale consonanza con il mondo e la natura. “Il contadino esce sulla strada / saggia l’aria con la mano e respira: / tutto gli si illumina il volto”.