Siamo ancora ad Andreotti?, di Iacopo Gori
Siamo ancora ad Andreotti? Nella primavera del 2013, aspettando un governo che non arriva, che senso ha leggere un libro come Andreotti, il papa nero, (l'antibiografia del Divo Giulio) scritto da Michele Gambino (Manni editore, 16 euro)? Forse nessun senso, se non per mero valore storico. Forse molto senso perché in tanti, dalle nostre parti, tendono a dimenticare. E chi dimentica il passato rischia di non capire bene il presente. O di perdersi particolari importanti.
UNO SPECCHIO DELL'ITALIA - Che Andreotti sia il personaggio più longevo e controverso della storia italiana è risaputo, così come è noto che siano stati accertati - almeno fino al 1980 - i suoi rapporti con la mafia. Altrettanto nota è la sua amicizia sincera con molti pontefici e la sua generosità con i più deboli che per anni hanno bussato alla sua porta. Nota la sua inimicizia storica con la sinistra così come il suo impegno per la nascita del primo governo appoggiato dai comunisti.
Un personaggio composito, difficile da capire e incasellare.
Meno note le misteriose zone di confine (o ancora più sconosciuta la struttura «Noto servizio» che pare dipendesse direttamente da lui) in cui pezzi dei servizi segreti e delle gerarchie militari hanno svolto compiti di copertura e depistaggi subito dopo la fine della guerra e in cui l'attuale senatore a vita (a quei tempi giovane sottosegretario) pare avere avuto un ruolo più che centrale. «Una dimensione che egli potrà praticare da una posizione di privilegio: dal 1959 al 1974 gli anni cruciali delle schedature illegali, delle deviazioni, dei patti scellerati tra servizi e neofascismo - scrive Gambino - dei generali infedeli promossi ai vertici delle gerarchie, della strategia della tensione, Andreotti è ministro della Difesa per ben otto volte, con sei diversi presidenti del Consiglio. Di fatto, il ventre molle delle istituzioni preposte alla sicurezza si forma sotto la sua gestione politica».
Un'esigenza storica - quella degli Usa, vincitori della guerra e salvatori della patria che devono allontanare il pericolo dell'avanzata del comunismo sovietico in uno dei paesi europei con il partito comunista più forte - che pare essersi innestata (nel caso di Andreotti) nell'immagine di un uomo apparentemente innocuo ma potentissimo, insondabile e distante, capace «di accumulare enormi quantità di fondi occulti per mantenere il potere».
UNA DIMENSIONE FILOSOFICA - Un uomo che ha dovuto mantenere il potere - suggerisce Michele Gambino nella suggestiva immagine tratteggiata nelle pagine in cui lo paragona al Grande Inquisitore di Dostoevskij dei Fratelli Karamazov - in nome di «una missione più alta»: gli uomini non devono cercare la verità. «Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta - fa dire Paolo Sorrentino nel suo film Il Divo al magistrale Toni Servillo che interpreta Andreotti - e invece la verità è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta».
Sotto questa luce il lunghissimo passaggio del sette volte presidente del Consiglio dentro la biografia del Paese non è più solo quello che può sembrare ma - scrive Gambino - ecco che «le ombre terribili della sua storia assumono una dimensione quasi filosofica in una visione senza speranza per il mondo...i discendenti del Grande Inquisitore hanno bisogno di uomini che esercitino il potere per loro conto, che governino in loro nome quel gregge di esseri fragili, deboli, corruttibili, chiamati uomini».
PERCHE' LEGGERE - «Certo non è Andreotti ad aver modellato così il Paese. Ma il Paese così com'è, somiglia in maniera impressionante ad Andreotti. La corte dei miracoli che lo ha circondato per decenni - mafiosi e fascisti, palazzinari e massoni, banchieri amici e cardinali poco spirituali, faccendieri e boiardi - è la crema a rovescio del Paese, l'emblema del peggio che diventa classe dirigente all'ombra di un uomo capace di tenere tutti i fili in mano, grazie alla sua rabdomantica conoscenza della debolezza umana, alla sua capacita di manovrare nell'ombra, al suo fare della furbizia una virtù da "Bagaglino". Forse l'Italia sarebbe stata quel che è senza Andreotti, ragioni storiche sono lì a dimostrarlo, ma non poteva essere migliore con Andreotti, perché Andreotti è stato - primo e più a lungo di chiunque altro - il grande sciamano della mediocrità italiana». Ecco perché (forse) ha senso nella fredda primavera del 2013 leggere questo libro. Perché ci aiuta a capire un po' meglio perché viviamo questi strani giorni.