... questa taranta non è La Vita, ma può essere della vita una scheggia, di Roberta Jarussi
Copertina rossa, opaca. Un ragno nero poco serio, in basso. Non è male. Neanche il titolo. Mordi&Fuggi.
Me lo regalano. Non me lo sarei comprato. È un amico. Gli voglio bene. Se no glielo avrei detto, Non me lo dare, ché non me lo leggo.
Mi ritrovo di colpo dentro una dimensione che conosco, che mi appartiene.
Questa faccenda della taranta è una roba strana.
A me personalmente mi riguarda da più di una decina d’anni. Da almeno uno mi sono fatta da parte, l’ho scansata, l’ho evitata, ho evitato di suonare, di ballare, di ascoltare la musica a casa, in macchina, sotto la doccia, di andare ai concerti dove io unica “lucida” ballo tra folle alterate più dal vino scadente che dalle terzine sui tamburi, dove ci si ama e si volteggia per notti intere in nome di un dio laico che muove le passioni più celate e rianima pure i cuori di pietra, e dove rischi la pelle se per sbaglio inciampi nella corda fatta a guinzaglio del cane, pure lui stordito, di qualche tarantato della domenica.
Fosse una cosa facile da liquidare, lo farei. Archivierei la pratica, e la teoria. L’esperienza e le nozioni, ricerche, filmati, quelli preziosi e rari che tante volte mi hanno fatto venire i brividi alla bocca dello stomaco.
Però non posso.
Io lo capisco il milanese che capita qua al sud, vede il mare, vede il cielo che è blu, mica per dire, mangia le provole di bufala, piene di latte e sapore, e poi a notte sente pure il tamburo. Io lo capisco quel milanese che perde la testa. Però non mi piace che se ne vada in giro scalzo e ubriaco, con quei piedi lisci lisci che non hanno mai sfiorato la terra, l’asfalto. Non mi va che si butti a terra mimando un orgasmo attarantato tra i vecchietti del posto che lo guardano straniti. Ma lo capisco. Capisco lui e quelli come lui. Che non sono solo milanesi, sono pure del sud. Ecco, quelli del sud li capisco meno. È balordo il popolo dei pizzicati.
Mi metto via. Prendo i tamburi, i nastri, le musiche che non stanno in nessun disco, quelle cantate e suonate rare nei cortili con gli anziani, conservo tutto. Difficile. Difficile di questi tempi, concerti, feste, sagre ovunque, ci capiti dentro senza volerlo.
Difficile, anche perché a volte mi chiamano a “insegnare” la pizzica e la tarantella, che è una cosa che non si dovrebbe fare mai. Ché non si è mai fatto nella storia, di insegnare la pizzica e la tarantella. Però ora si fa, da anni si fa, da quando i milanesi hanno visto il cielo blu, e mangiato la provola salata e poi a notte sentito quel tamburo, allora la voce si è sparsa e sono arrivate tante persone, e tutti vogliono ballare, suonare, suonare, ballare.
Mi fa piacere che i milanesi apprezzino. Ma io non ho voglia. Di insegnare, di ballare, di suonare. Allora smetto.
Me lo regalano. Mordi&Fuggi.
Mi dà fastidio. 16 racconti per evadere dalla taranta. Proprio così c’è scritto. E ci sono tutti: Cosimo Argentina, Andrea Bajani, Giovanna Bandini, Giosuè Calaciura, Antonella Cilento, Carlo D’Amicis, Teresa de Sio, Omar Di Monopoli, Elisabetta Liguori, Carlo Lucarelli, Gianluca Morozzi, Antonio Pascale, Aurelio Picca, Laura Pugno, Livio Romano, Grazia Verasani.
Leggo diffidente. Sempre sul punto di chiudere e conservare.
Ci trovo voci diverse, squarci di sud, la polvere, i piedi, il sudore, occhi negli occhi, la pelle, la smania, aria, ansia, ansia che toglie il fiato, aria che manca sempre, poi inaspettata invade, appanna, stordisce. Ci trovo la fuga, il disincanto, finalmente, e la durezza, la voglia di raccontare altro perché questa taranta non è La Vita, ma può essere della vita una scheggia. Ci trovo il desiderio, di morte, non solo di vita. E trovo ironia intelligente, e molto cuore. E banalità, anche, cosucce ingenue, neutre, senza colore.
Non sempre trovo il ritmo, il respiro, il battere, quel battere di cui si parla.
Forse non tutti i nomi di Mordi&Fuggi conoscono il sapore vero delle storie di cui scrivono, non tutti, ma alcuni sicuramente sì, e l’hanno saputo raccontare.
Ieri, in macchina, verso il mare, sole esagerato, cielo blu tinto, provola zeppa di latte e sapore. Ascolto una pizzica registrata male chissà a quale ronda, accenno il ritmo sulla custodia già spaccata del cd, a girare la mano, giusto per vedere se lo so fare ancora, ma proprio due minuti.
Mio figlio: “Ma’, è come andare in bicicletta, non te ne scordi. Per piacere leva ‘sto strazio”.