Mordi&Fuggi

02-08-2007

L'erba del diavolo, di Teresa De Sio

Vedete, guardate qua, signurì, se voi prendete le foglie quelle piccoline della pianta, però dovete usare solo quelle che trovate nella parte di sotto vicino al terreno perché sennò le altre non sono buone, voi le mettete in un coso come in questo qui, di legno, e con il pestello le dovete triturare bene bene per un poco di tempo fino a che, vedete, viene come una polvere chiara che voi poi la mettete nel bicchiere e quello, la persona, quando va a bere oppure a mangiare, non se ne accorge proprio, perché non tiene nessun sapore. Noi nell’antico tempo la facevamo così, come pure mia nonna e mia mamma, la chiamiamo la stramunella. Queste cose erano sempre buone per la nostra famiglia, quando ancora stavamo a Procida, perché la gente veniva a cercarcele per fare qualche fattura, e anche ci dava soldi delle volte, oppure altre cose che non erano soldi ma ci levavano lo stesso la fame dallo stomaco perché noi a quel tempo non tenevamo nemmeno gli occhi per piangere. Però dovete fare assai attenzione perché se ne mettete di più di quello che vi faccio vedere io, l’effetto diventa pericoloso e poi si capisce, cioè qualcuno può pure capire di che cosa si tratta. La gente pensa sempre male, si spaventa, non conosce… fatevelo dire da me che sono tanto più anziana di voi, se sapeste quante ne abbiamo passate con mia sorella Archina, proprio a causa di questa polvere… no, non è un nome strano, mia sorella si chiamava così perché, voi non lo sapete, ma l’isola di Procida è protetta dalla Madonna dell’Arco e allora molte bambine, specialmente nell’antichità, ma pure adesso ancora, le chiamano Archina in onore della Vergine. Insomma quella là, mia sorella, ha sbagliato una volta a usare la polvere e perciò è stata la rovina della nostra famiglia. Sì, voi non vi potete ricordare perché siete troppo giovane e poi non siete nemmeno di queste parti, ma la gente, qui a Cutrofiano, dopo che successe il fatto di Narduccio Greco che era stato trovato morto dentro al letto, disse che era stata colpa di mia sorella, che forse si era sbagliata, e aveva dato a compare Narduccio il veleno preparato per il “monaciello”. Io in casa Greco facevo la serva a quel tempo. Poi donna Mariannina, che era la moglie del morto, me ne cacciò perché anche lei dava la colpa a mia sorella, che tutto era stato, diceva, per il fatto che io lavoravo in quella casa, che sennò Archina non sarebbe mai entrata lì e non avrebbe mai conosciuto compare Narduccio.
A ogni modo, quelli furono tempi brutti assai per la nostra famiglia, perché poi ci andammo di mezzo tutti quanti. Sentite a me, signurì, la gente è fetente, non tiene cuore e ci gode sulle disgrazie degli altri e ti mette in croce… ti mette in croce se non sei come a ’lloro, e se pure uno non c’entra niente allora sono contenti quando ti hanno sputato in faccia tutte le colpe della tua famiglia. E a me, me le hanno sputate, signurì, e come me le hanno sputate!… e se quelle anime disgraziate non fossero oramai, la maggior parte di loro, passati sotto una ben più alta giurisprudenza, potete stare certa che starebbero ancora qua a sputare…
Ma io adesso vi sto distraendo con tutti questi fatti e voi non state più a guardare come faccio la polvere. Vedete è quasi fatta, è fina fina e chiara… poi vi spiego le quantità esatte che, per amor di Dio, non vi sbagliate! Anche se stiamo nel duemila e voi siete moderna e abitate in città, vi può succedere un guaio pure a voi, e poi ve la pigliate con me. Comunque adesso vi finisco di raccontare di mia sorella, che è una storia lunga.
Quella fin da quando nacque si capì subito che non teneva buona salute. E che fretta che aveva di uscire in questa valle di lacrime! Arrivò due mesi e mezzo prima del tempo, che mia madre non se l’aspettava proprio, che già la gravidanza l’aveva fatta soffrire parecchio… Era il novembre del 43, io tenevo otto anni, era il giorno della festa dei morti e quella povera donna si sentì male all’improvviso, davanti al cancello del camposanto dove eravamo andati, come tutti gli anni, per portare i fiori sulla tomba dei suoi genitori. L’acchiapparono a tempo a tempo e la portarono di corsa a casa, cosicché riuscì a sgravare nel letto. Mio padre mandò ad avvertire donna Aurelia “la pugliese” (che la chiamavano così “la pugliese” perché veniva da Specchia ed era pure un poco parente di nostro padre) la quale venne subito perché faceva la vammàna, e così l’aiutò. Archina uscì piccola piccola, tutta arrefognata dentro una specie di vescica rossa di sangue. La vammàna disse che era tutta roba della madre e che era un fatto buono, disse che la bambina era nata con la camicia e che noi dovevamo buttare la vescica nel torrente, così la madre non avrebbe perso il latte e la bambina sarebbe cresciuta fortunata. Ma io penso proprio che in casa nessuno si ricordò di fare questa cosa, e come infatti mia madre ebbe l’infezione forte e morì il giorno appresso, e la vita di mia sorella è stata quello che è stata… Vedete, signurì, io mò sono anziana, ho finito i settant’anni, e vi posso dire che noi nasciamo e andiamo girando per anni e anni senza mai sapere che può succedere da un momento all’altro. Né la sorte e né la morte. Come potrà mai essere questa morte, che tutti ce la dicono da che siamo piccoli e ci mettono paura, ma vallo a sapé che faccia tenarrà veramente… quando, in che posto, …a casa?… nel letto?… o in qualche parte sconosciuta che noi mai ci siamo andati prima? E chi lo può dire. Però intanto s’adda campà, s’adda fà, si deve arrivare in piedi in faccia alla Capa Scarusa. E ci trasciniamo questo peso che non sappiamo…
Archina no. Lei era nata e insieme a lei, nello stesso letto, era nata la sorte sua. Io ci credo che sta tutto scritto!
Comunque, per tornare a noi, durante il parto successe Piedigrotta. Io ero piccerella, un poco capivo e un poco no. Mi ricordo che alluccavano tutti assieme,… mi pare mò mò… alluccava mia madre, che lei non la voleva quella figlia, che si era sentita schiattare in corpo, che la bambina se l’era mangiata da dentro prima di nascere, alluccava mio padre che la Madonna l’avrebbe punita a dire certe cose, alluccava donna Aurelia che la bambina si strozza col cordone e non c’è il disinfettante.
Che vi devo dire, così fu! O per lo meno io così me lo ricordo.
Mia madre, dopo partorito, le venne la faccia bianca bianca, smise di gridare e non disse più niente. La bambina la misero subito nell’altra stanza perché dissero che quella povera donna non se la fidava di tenerla, tanto che aveva sofferto, e la neonata pure non stava troppo bene dàtosi che era nata assai piccola e, diceva donna Aurelia, forse non ce la faceva a sopravvivere. La creatura non si chiamava ancora in nessun modo, e così allora disse mio padre che se la Madonna dell’Arco gli faceva la grazia che la figlia non moriva, l’avrebbe battezzata col nome di Archina. E difatti così fece. Però lui non si era ricordato di chiedere la grazia anche per nostra madre la quale il giorno dopo, come vi ho già detto, ebbe questa febbre forte dell’infezione e purtroppo morì.
Quel pomeriggio del funerale vennero tutti i parenti di mamma che stavano lì a Procida e vennero pure alcuni della famiglia di nostro padre che invece, appunto era proprio pugliese, di qui, di Cutrofiano.
Tutti quanti piangevano, guardavano a mio padre che stava disperato pure lui e poi guardavano a me e scapuzziàvano e dicevano a bassa voce «…hee e mmò? …’sti povere criature, chi ’e guarda, e ’stu pover’ommo? E come po’ fa sul’isso…». Io a quell’epoca, come vi ho detto, tenevo otto anni. Mi avevano messo lì, sotto alla tavola da pranzo, e mi avevano dato un bel biscotto di grano, che quello è lungo da mangiare e così mi tenevano distratta. E io mentre me lo rosicchiavo stavo tutta contenta perché ancora non avevo bene capito che era successo, che voi non vi potete ricordare come erano buoni i biscotti di grano a quell’epoca, e te li potevi mangiare senza che si rompevano i denti. Eh, signurì, come cambiano le cose, passa il tempo e le cose vanno sempre peggio, sempre più scadenti… i biscotti di grano… la gente… e pure i pensieri che uno pensa, che ti vengono in testa. Uno passa tanti anni credendo, che ne so, che quello, il tavolo, per esempio… è rosso, poi all’improvviso, una bella mattina, vai a vedere e quello invece è verde. Che tu puoi pure dire… e ché? il rosso è meglio del verde?… No, non è che è meglio o peggio, è che tu non ci sei abituato e poi è difficile abituarsi, pure se c’hai tutta la vita di tempo, non ti abitui più. A ogni modo io penso che proprio quel giorno i parenti pugliesi, che però io non li avevo mai visti prima in vita mia, convinsero nostro padre che là a Procida non era più cosa di restare, che come poteva fare da solo con una creatura appena nata e un’altra di otto anni, che ero io. Non so come fu, ma mio padre si fece convincere subito e dopo manco un mese che avevano atterrato nostra madre, ce ne venimmo a vivere qui, a Cutrofiano e con noi se ne venne pure donna Aurelia che si era attaccata alla nostra famiglia, e fu un bene che venne a stare con noi perché alla fine è stata lei che ci ha cresciuto.
Signurì, scusate se mi faccio i fatti vostri, ma voi… a che vi serve questa polvere che vi sto preparando?… No perché, sapete, …tante volte… uno magari parte che vuole fare il bene, una cosa buona… e poi si va a finire da un’altra parte… state accorta quando la usate che, come vi ho già detto, questa cosa può fare male assaie.
Comunque, morale di tutto questo, io e mia sorella siamo cresciute qui, e alla fine era come se fossimo salentine pure noi. Io però a Procida ci sono tornata spesso perché ci stanno certi cugini e poi, come vi devo dire… quel mare è il mare della mia nascita, i colori… e pure la parlata un po’ me la sono mantenuta, e vi dico di più, mi sa che sarà proprio lì che me ne torno quando viene il mio momento. D’altra parte pure Archina, dopo che successe la disgrazia, fu fatta tornare a Procida da questi cugini. Così, un po’ per quietare le acque e mettere a tacere. Chi lo sa! qualche disegno del Padreterno che, gira gira, dobbiamo tornare da dove siamo venuti. Anche qua però è bello assai vi devo dire, oramai mi sono affezionata… avete visto venendo tutta la terra rossa… che quanta ne abbiamo zappata in gioventù! I Greco ne tenevano tanta di terra, dodicimila alberi di ulivi tenevano… Noi fummo subito fortunati, perché appena arrivammo quaggiù nostro padre entrò a lavorare nella masseria della famiglia Santo, che stavano pieni di soldi! Tutti ne parlavano male in paese, principalmente di lui, del vecchio, Angelo Santo, che stava paralizzato sulla carrozzina ma comandava a tutti come un generale, dicevano che era avaro e cattivo… però nostro padre non disse mai niente, a casa, di queste cose e non si lamentò mai. Io pure ebbi fortuna, che subito una cugina nostra mi portò dai Greco che, anche se ero ancora piccolina, mi presero lo stesso a servizio da loro. Brave persone, donna Mariannina e compare Narduccio! Erano una coppia giovane, senza figli e avevano ereditato un sacco di terre dalla famiglia di lei, e io in quella casa sono rimasta a lavorare per tanti anni, fino a che, appunto, non successe la disgrazia.
E così, per tornare a mia sorella, la bambina cresceva bene all’inizio, qui in Puglia, era serena pure essendo orfana di madre, giocava con gli altri bambini che stavano nella zona nostra, aveva cominciato ad andare a scuola e le suore dicevano che era intelligente. Insomma fino a verso i dodici anni non ci furono mai problemi. Poi, non lo so come fu, ebbero inizio tutte le nostre disgrazie. La bambina era come se si fosse ammalata, cominciò a cambiare, smise di parlare, non diceva più niente, se le domandavi non ti rispondeva. Io le chiedevo “ma che tieni, non ti senti bene?”. Ma lei niente, sempre zitta, oppure, se parlava, diceva il fatto del monaciello, che era diventata una fissazione, che in casa c’era questo monaciello. Voi lo sapete, signurì, che è ’stu munaciello? Che delle volte compare nelle case della gente, piccolino, vestito col saio, come se fosse, che so, l’anima di un bambino morto. Certe volte vi sorveglia e vi porta bene, e certe altre vi dà fastidio. A mia sorella le dava fastidio, diceva che veniva di notte, le faceva paura, lei era come ossessionata, e diceva che lo voleva per forza avvelenare. Fu da lì che, sperando di farla calmare, le feci vedere come si preparavano queste foglie di stramunella tritate. Ma così, tanto per tenerla occupata, e invece lei si appassionò, e tutte le sere metteva sulla finestra un piatto con un po’ di polvere, che così ’o munaciello non veniva. Ma io mai potevo pensare che succedeva quel guaio. Però niente, le cose non miglioravano. Archina non voleva più giocare con le compagne e pure con la scuola, le monache dicevano che la bambina stava strana, sempre distratta, che loro non si facevano capaci di che era potuto succedere. Ogni tanto spariva, si allontanava da casa e chi sa dove andava girando per il paese, che andava facendo. Il padre? Quello non se ne importava proprio, l’unica cosa che faceva con Archina era portarla ogni tanto con lui alla masseria dove c’era una nipote di questi Santo, che teneva la stessa età. Però lui con la bambina era sempre cupo, disamorato. Io penso che non le aveva mai voluto bene veramente a quella figlia, forse, penso io, perché sotto sotto l’aveva sempre incolpata del fatto di nostra madre che era morta per partorirla. È brutto da dire, però quello voleva bene solo a me. Io?… e che potevo fare? Cercavo di farla distrarre. Me la portavo sempre appresso, soprattutto quando andavo a lavorare dai Greco, che mi pareva che la bambina ci veniva volentieri. Donna Mariannina mi diceva “Filumè, non la lasciare sola a casa a questa creatura, portala qui che mi tiene compagnia”, e le insegnava a fare i dolci e compare Narduccio ci parlava, le raccontava un sacco di storie, se la portava nella terra e le spiegava, che so, come si zappa, l’acqua, il sole, la semina, …insomma le cose dei campi, che alla bambina le erano sempre piaciute. Che se io solo avessi potuto immaginarmi quello che stava per succedere, mai l’avrei fatta stare tanto tempo con compare Narduccio, buonanima! Ma che volete fare, la vita così è.
Intanto le cose non andavano meglio per Archina, anzi!
Io avevo pure pensato… sa, l’età che è un poco difficile. Per esempio io mi ricordo tale e quale come fosse adesso, la notte che mia sorella si fece signorina… avete capito? che insomma ’lle venette per la prima volta ’o marchese, il sangue di quando finisce il fatto che sei piccola e comincia il fatto che sei grande. Allora, mi ricordo, la sera prima erano tornati da fuori lei e il padre, la bambina non teneva appetito e si andò direttamente a coricare. La mattina dopo, quando si era fatta ora di andare a scuola, non si avviava a uscire dalla stanza, stava zitta e non si sentiva niente. Quella, a scuola, come vi ho detto, in quel periodo già non ci voleva andare mai, diceva che le monache la prendevano a mazzate, così io pensai che era la stessa cosa anche quella volta, e non ne volevo fare accorgere al padre che sennò pure lui la scommava di mazzate. Io a quell’epoca tenevo una ventina di anni e purtroppo a scuola non c’ero andata mai, perché ero stata presa, come vi ho detto, subito a servizio, e allora ci tenevo che almeno la bambina crescesse istruita. Allora entrai zittu-zittu nella stanzetta, che ci stavano pochi mobili perché noi tenevamo pochi soldi per queste cose, e Archina stava al buio, ferma, stesa sopra il letto come se fosse morta, di una brutta morte ammazzata però, perché teneva tutte le gambe sporche, e pure il lenzuolo, e pure il sottanino, tutte sporche di una cosa marrone che sembrava sangue serreticcio, ed era proprio sangue. Il primo sangue. La cosa che mi ricordo è che lei dormiva ma dormendo parlava. Diceva che ci stavano gli indiani, con tutti i cavalli le penne colorate e le facce scritte con i disegni, che erano arrivati da sopra le montagne, che era Maglie, e poi non era più Maglie, che lei stava nascosta sotto il carro e allora questi indiani non la vedevano e ammazzavano tutti gli altri e lei si salvava, ma poi un indiano diviso dal gruppo l’aveva vista sotto il carro e andava vicino per ammazzarla col coltello. Io, signurì, stavo lì in piedi a sentire queste cose e mi sembrava un poco strano principalmente tutto quel sangue, che pure io, essendo la maggiore, ero già sviluppata da alcuni anni e mi ricordavo che il primo sangue, a me, era stato assai di meno. Poi Archina fece un mezzo scatto come se si stesse svegliando e senza cambiare voce disse “Compare, se mi faccio male non vado a scuola”. Poi aprì gli occhi e mi vide, che nella stanza non c’era nessuno, c’ero solo io. A me mi veniva da ridere perché non sapevo proprio questo fatto degli indiani da dove le era uscito, in quale cinematografo li aveva visti per descriverli così bene, o forse chi sa, su qualche giornaletto con le figure stampate e colorate che ci portava donna Aurelia da Napoli quando andava a trovare il figlio che stava militare e che io non li guardavo mai ma Archina sì, anzi li nascondeva e guai se uno li toccava, si faceva afferrare dai Turchi. Che vi devo dire signurì, qua la verità è che non si finisce mai di imparare. Voi mi potete dire, giustamente, che le cose che uno deve sapere stanno scritte nei libri, che si deve andare a scuola, si deve studiare, e poi finisce che le cose si capiscono, pure prima che succedono, forse si possono pure riparare, si impara a campare, a sfuggire tutta questa miseria che non è la miseria dei soldi, no… signurì, è la miseria di non riuscire a vedere, non capire, stare come dietro a un muro, perché noi a quell’epoca così eravamo, come dietro a un muro, e non c’erano i libri, però le cose succedevano e tu ci dovevi fare i conti e nessuno che ti insegnava prima e nessuno che ti consolava dopo, quando il fatto è successo e non si può fare più niente!
Fu proprio in quel periodo che successe il fatto del morso. Sì, sapete, le cose che si dicono da queste parti, che d’estate quando vai nelle campagne ti può mordere questo ragnetto, la tarantola. Dicono che le tarante sono spiriti di persone morte e che, quando ti pungono, l’anima del morto entra dentro il corpo e ti fa stare male. Eravamo nel 55. Archina teneva, come vi ho già detto, quasi dodici anni, a quell’epoca, era verso luglio, mi ricordo che faceva un caldo di pazzi… verso fine luglio, un pomeriggio… Archina, come al solito, non sapevamo dove era andata, io stavo stendendo i panni nel cortile di donna Mariannina e donna Aurelia venne fino davanti alla porta di casa Greco a domandare se sapevo dove stava la ragazza, che era uscita presto la mattina e nessuno l’aveva più vista. Io subito mi preoccupai. Mi presi un poco di permesso e facemmo una corsa fino a casa per vedere se era tornata. E come infatti la trovammo che era tornata, stava nella dispensa dove tenevamo lo zucchero, il sale e il caffè, e si era messa a cucire dei sacchi vuoti, che lei mai lo aveva fatto prima, e stava tutta curiosa, distratta, e cuciva questi sacchi come una pazza e vidi che stava tutta sudata, agitata. “Bella a zia, ma che stai facendo?” disse donna Aurelia, che ormai la chiamavamo zia. Ma quella niente, da un orecchio le entrava e da l’altro le usciva, e non rispose. Poi il giorno appresso era ancora più strana del solito e pure i giorni dopo e io continuavo a non capire questa bambina che teneva. Allora donna Aurelia mi disse “Guarda Filomè, che questa, la bambina, l’ha morsicata la tarantola”. Mi disse che dovevamo chiamare i suonatori a suonare a casa, che così Archina poteva ballare, sudava, e scacciava la tarantola. E così facemmo. Non mi potrò mai dimenticare! Vennero don Filino, il barbiere, che suonava il violino, don Luigi il mezzano con l’organetto, Uccio Blasi, che niente di meno era il comandante dei carabinieri, con la chitarra e donna Aurelia stessa che suonava il tamburello. Non so nemmeno io se era più una festa o un funerale. Donna Aurelia mise un lenzuolo bianco steso a terra nella stanza di mia sorella, di fianco al letto, ci fece togliere le sedie per fare più spazio. Stranamente Archina non si ribellò, anzi, sembrò che stesse aspettando proprio a loro. Prese un fazzoletto rosso dal tiretto, si tolse le scarpe e appena sentì che i suonatori suonavano, cominciò a ballare. Tre giorni, signurì, per tre giorni quelli suonarono e lei ballò. […]