Mordi&Fuggi

28-08-2007

28/08/2007 - Stilos
Partire è fuggire dal proprio io, di Alfio Siracusano

Intanto il titolo: Mordi &Fuggi, che rinvia al dato fisico del protagonista assoluto. Assoluto e in alcuni casi anche visibile nell’articolato dei sedici racconti che compongono questo libro a tesi: la tarantola, il ragno salentino che ha il misterioso potere di esagitare il corpo che morde quasi liberandolo dal suo peso allorché lo invade una frenesia di danza che è come una fuga da se stesso, una specie di “partizione” nel senso dell’ètimo come ricostruito e ricordato da Marino Niola nell’introduzione. Dove il “partire” non è solo l’andar via, ma è appunto inteso come un separarsi, un fuggire dal proprio sé, un dividersi in parti, nel nostro caso preda di altre appartenenze, frenesie, bisogni indicibili che solo il ritmo martellante di una danza riesce a dire e da cui solo la musica ritmata sa liberare: la taranta nel brindisino in Puglia come il flamenco dei tarantos a Valencia, in Andalusia. Accomunate, l’una e l’altra terra, per le vie misteriose della storia. E l’una e l’altra terre di partenze, di migrazioni con nel cuore il sapore dei propri riti, delle proprie ancestrali abbarbicazioni.
Che è anche il tema del bellissimo racconto di Giovanna Bandini, “Incantatori”, significativamente una fuga nel mondo e un ritrovarsi nel mondo improvvisamente rimpicciolito cui segue un fatale ritornare: che è scoperta di misteriose consonanze culturali. Ma è anche il retroterra più o meno esplicitato di ognuno degli altri quindici: dove il tema dell’insetto che morde producendo l’effetto tarantolante o quello del fatto culturale che si è innestato in esso con l’invenzione della Taranta si arricchisce di altri sensi, in essi incluse le devastanti alienazioni cui i nostri tempi anch’essi tarantolati conducono un’umanità smarrita. Nella guerra feroce di Lucarelli (“Portavo una testa di morto”) come nella mafia surreale e a suo modo tarantolata di Calaciura (“Funerale”). Ma anche nelle allucinate elucubrazioni del ladro di Picca (“Ricordi di un ladro”) come nel bellissimo spaccato che ci racconta Teresa De Sio (“L’erba del diavolo”): una tranche de vie dove la tarantola è anche destino feroce che si aggiunge a destino feroce, senza che neanche la musica di tre giorni e tre notti riesca a fare il miracolo della liberazione dal demonio inoculato da quel morso. Ed è questo che fa di una raccolta di racconti a tesi qualcosa che va oltre lo spazio geografico salentino, elevando il suo tema a metafora d’altro.
Ne è pienamente consapevole Marino Niola nell’introduzione di cui si diceva, quando evoca, da antropologo cresciuto alla scuola di Ernesto De Martino e a dirci il senso di quanto di significativo contiene ogni tradizione, di più se parallela, il canto vitale e disperato di Garcia Lorca e insieme il frenetico movimento di certa poesia barocca, non a caso attratta dal fenomeno. Il Lubrano da lui citato (“Deliqui giocolieri, estri smarriti // sparge il velen d’infuriati ragni”) è sintesi perfetta di una fuga da sé, come lo fu anche la metafora sfrenata cui il poeta affidò l’idea non più governabile della vita. Vengono in mente i suoi cedri tarantolati (“rustiche frenesie, sogni fioriti // deliri vegetabili, odorosi”), ed erano danze di sillabe che nell’ultimo seicento raccontavano la fine di un mondo cui non si sapeva quale altro si sarebbe sostituito. Oggi, suggerisce Niola, il folklore della taranta può anche farsi alimento di iniziative economiche, diventare tema da concerti o da agriturismo, e come tale attirare folle e volgarità.

 09/09/2007 - Gazzetta del Mezzogiorno
La penna pizzica, di Sergio D'Amaro

Il grande successo della «Notte della Taranta» avrà pure una spiegazione. Dietro il fenomeno, moltiplicato da un’accorta esaltazione mediatica e dal marketing turistico, si scorgono ragioni che affondano quasi tutte nell’inconscio collettivo. La taranta non è solo un simpatico ragno, ma un simbolo ossessivo, un tamburo mentale che batte chissà da quanto tempo nel cuore martoriato dell’uomo. La taranta è opportunamente, fatalmente, notturna, può essere un ectoplasma, un lemure, un monachicchio: perché non provare a raccontarla, magari intuendo e temendo di vedere in dormiveglia il suo profilo di ginnasta a otto zampe?
Lo hanno fatto in sedici, tanti sono gli scrittori e le scrittrici (per lo più sotto il parallelo di Roma) che hanno risposto alla chiamata Mordi & Fuggi. 16 racconti per evadere dalla taranta, un’antologia dottamente introdotta dall’antropologo Marino Niola e firmata da Cosimo Argentina, Andrea Bajani, Giovanna Bandini, Giosuè Calaciura, Antonella Cilento, Carlo D’Amicis, Teresa De Sio, Omar Di Monopoli, Elisabetta Liguori, Carlo Lucarelli, Gianluca Morozzi, Antonio Pascale, Aurelio Picca, Laura Pugno, Livio Romano e Grazia Verasani.
Lagune limacciose, fiumi torbidi, lame e specchi d’anima: qui si riflettono i racconti della contemporaneità o le stagioni ormai impossibili di un passato mitico, caricandosi di ardori freddi e di passioni metabolizzate. L’umanità pizzicata nelle sue corde intime risponde come può e come sanno fare le penne degli autori e, meglio sembra, delle autrici: risultano più avvolgenti, sinuose, euritmiche le pagine di queste ultime (soprattutto la Bandini, la De Sio nota come cantante, la Pugno), probabilmente più in sintonia con certe ferite, con antici inguaribili rimorsi.
Una prova anche generazionale, se si vuole vederla sotto questo aspetto, che riesce ad accomunare trentenni (o poco più) e cinquantenni (o poco più), e che dimostra come in realtà la tarantola non sia solo una condizione storica, ma anche una proficua proiezione immaginativa. Niola parla nell’introduzione di una partenza del tarantato. L’uomo si divide, si sparte, soffre l’estraniazione, batte col piede insistente sulla terra salda a cui aspira con tutto il suo corpo. Partire è rinascere, è ritrovarsi, è cogliere di nuovo il senso dinamico della vita dopo l’eclisse della disperazione e del disadattamento.

01/09/2007 - InAltriTermini
I racconti della taranta

A oltre sessanta anni dagli studi di De Martino, il mito legato al morso della taranta è attuale più che mai e il Salento sempre più preso d'assalto dai turisti.

28/08/2007 - Il Domani
Non solo morsi e pizzica, di Sergio Rotino

Se dovete ancora andare in ferie e la vostra meta è il Salento perché attratti da pizzica e tarantismo, mettete nel borsone da viaggio anche Mordi & Fuggi. Prima uscita di “Punto G”, collana posta sotto l’egida del Creative Commons e dedicata dalla casa editrice Manni alla narrativa contemporanea, l’antologia prova a dare attraverso i racconti di sedici narratori (una è Teresa De Sio, qui al suo esordio) una visione diversa, meno oleografico-turistica, a volte anche critica della taranta, fenomeno sviscerato ne La terra del rimorso dall’antropologo Ernesto De Martino. Cioè una visione lontana dalla internazionalità di manifestazioni come “La notte della taranta”. A cimentarsi nell’impresa, oltre a un gruppo di giovani narratori pugliesi (Cosimo Argentina, Carlo D’Amicis, Omar Di Monopoli, Elisabetta Liguori, Livio Romano) anche autori provenienti da altre parti d’Italia (Giosuè Calaciura, Antonella Cilento, Antonio Pascale, Giovanna Bandini, Aurelio Picca, Laura Pugno, Andrea Bajani) e tre emiliani “di peso”: Carlo Lucarelli, Grazia Verasani, che con La ringhiera firma uno dei racconti migliori, e Gianluca Morozzi.
Nei racconti la taranta (il ragno), il suo morso, la possessione e il ballo salvifico (la pizzica) divengono quasi sempre elementi di sfondo, pretesti da utilizzare parsimoniosamente, spesso dati in chiave di metafore. Allora la possessione viene narrata in chiave “amorosa” – per esempio ne Il problema della Liguori – o fantaorrorifica - Sputazza from outer space, di Di Monopoli, ma anche Poison della Pugno - o ironica - Cosimo corre, di D’Amicis - e raramente collegata a radici “storico-magiche” - L’erba del diavolo della De Sio, e Portavo una testa di morto, esercizio di stile firmato daLucarelli.  Spesso a questo tema si aggiunge quellodel rimorso, come accade per Liguori eVerasani, cui la finale metafora delveleno dona un senso di perfezionenarrativa, o ancora in Lucarelli. Ma nonè tutta qui Mordi&Fuggi. È anche nellacommedia dell’equivoco in salsa metaletterariaproposta ne I duri non ballano da Morozzi, o nel tema dell’esorcismo,della rinascita, presente in Forse si muore così di Andrea Bajani. Iracconti migliori di Mordi&Fuggi a appartengonoperò a Cosimo Argentina e aLivio Romano. Entrambi propongono,pur se in modo differente, una critica allacommercializzazione e alla asfissianteonnipresenza della taranta.
Sia gli affondi in punta di fioretto di Romano in Calypso mon amour sia i colpidi spada che Argentina porta ne La melodia dei nastri di ghisa («di questo si trattava:un bazar dove si mettevano in mostragli affetti e le tradizionivendute al miglioreofferente») dividononettamente la vera faccia del Salentoda quella imbellettataa uso e consumo dei turisti, eci fanno capire come un territorio che siannulla in favore del turismo e delcommercio visti come unica fonte diricchezza («tutti piegati a novanta gradi davanti al dito medio del dio denaro»), non faccia bene da nessuna parte e a nessuno.

11/10/2007 - Famiglia cristiana
Il veleno del ragno, di Irene Vallone

Un morso che avvelena l'anima e il corpo. E' la taranta, uno sballo senza crack, ubriacatura senza alcol. Folclore del Sud con un'unica sostanza: il veleno del ragno. Ma anche mito, dentro il quale 16 scrittori italiani cavalcano la sfida di fantasticare a briglie sciolte. E' dall'era del barocco, infatti, che il tarantismo si annida in ogni fantasia letteraria. Forse perché sinonimo di follia e sfrenatezza, di metamorfosi sempre catartiche. Carlo Lucarelli immagina un SS ossessionato dal ricordo di una ragazza sgozzata durante la guerra, nelle sue notti insonni la vede ancora danzare, viva e guizzante.
Il palermitano Giosuè Calaciura dipinge la delirante ferocia di un boss mafioso, prima d'essere ucciso dal padre di una delle sue vittime, mentre Andrea Bajani s'interroga sulla misteriosa figura di una nonna, data per morta, che un bel giorno riempie la casa di fiori, solo perché si è innamorata. Tutti viaggi, con o senza ritorno, che deformano le geometrie esistenziali. Ecco la ragazza di Grazia Versani infilarsi, dopo un volo notturno in bilico sulla ringhiera, nel tunnel della droga. O la fotografa di Giovanna Bandini riscoprirre, nei colori di una festa andalusa, il calore del paese natio.
Spesso è il ritmo della musica, la forza diropmpente della danza a unire queste brevi storie di personaggi che cercano sempre di diventare altro da sé o in sé, come unico antidoto contro il veleno dell'assenza. Perché, come si legge nell'introduzione dell'antropologo napoletano Marino Niola, "siamo sempre alla ricerca di un cimbalu d'amuri che sani la ferita che noi siamo".

26/11/2007 - www.francarame.it
La tarantola, di Mimmo Grasso

L’ancestre “tarantola” è ricostruibile riannodando le percezioni fondamentali dell’universo simbolico umano e dunque comportamentale. 10.000 anni di storia documentata sono una cosa molto modesta ( appena 100 persone di 100 anni) e  posso dunque  sostenere  che le mie modalità connettive non sono diverse da quelle del mio antenato del neolitico. Per ricostruire dunque i percorsi significanti di “tarantola” basta mettersi di fronte a questo  segno e seguire il flusso che la visione genera facendo salire a galla nel liquido oculare immagini e in quello salivare parole che “tarantola”  evoca dal labirinto cognitivo ed esperienziale. Si tratta di  immagini  e parole che trovano  riscontro nel nostro modo di pensare e parlare (quante volte, ad esempio, paragoniamo le persone ad animali?)  oltre che  nel corredo simbolico ad esse sottostanti,  analizzato con vari approcci. Se faccio allora  la carta mentale di “ragno”, osservo che (e la priorità delle definizioni è un ottimo indicatore di gerarchie di senso):
 
 
somiglia all’organo genitale femminile
dunque il ragno è elemento femminile.
 
irretisce la propria preda e la divora tenendola il più a lungo possibile in vita perché il sangue sia sempre fresco fino allo svuotamento e alla  carcassa.
dunque il sesso femminile irretisce il maschio, lo divora e ne succhia il sangue.
 
ha dimora nel sottosuolo
dunque la femmina è il sottosuolo, il suo organo  genitale è la “tana
 
costruisce tele ottagonali perfette e l’insetto che vi rimane imprigionato non riesce a uscirne
dunque la tarantola è accampata al centro del labirinto (labor-intus)
 
costruisce la tela come prodotto del proprio corpo
dunque la trappola  è qualcosa che viene dall’interno
 
inietta veleno
dunque il contatto con la femmina è velenoso
 
Si può continuare con altri sillogismi. Inserire  un “come” nelle deduzioni, che sono un fatto puramente formale e non danno mai nuove informazioni,  è un’operazione già molto evoluta rispetto alla  semplice deduzione. Ma la mia carta mentale mi dice che il sesso femminile nasconde  un terrore arcaico. Terrore da “terra”. Questo terrore riguarda la dinamica vita-morte. Il sesso femminile è individuato come matrice di vita e di morte, come causa del “perdersi”. L’apposizione di un simbolo labirintico sul sesso delle statuette di Cnosso documenta le mie “spontanee” analogie
 
La breve catena di significati lineari (miei ma condivisibili, riconoscibili) si ripete  nell’universo percettivo femminile. Infatti, chi è posseduto da tarantismo non viene punto solo da un ragno ma anche da una formica o da un serpente (lo “scorzone”),  simbolo maschile.
 
Siamo, dunque, in presenza di un’elaborazione culturale identica sia al maschile che al femminile e che riguarda la trasformazione, il passaggio da uno stato all’altro mediante rituali agitatori, sibillini.
 
L’essere (animale)  che morde ha sempre punte (chele, pungiglione, denti, zanne, ecc.) ed è appena il caso di ricordare, qui, che la forza erotica è rappresentata da un essere che dardeggia con frecce appuntite.
 
Il “ragno” ( da ARK-Ys, rete, a sua volta derivato da ARK, ” o da Hurna-Nabas, sanscrito, “lana nell’ombelico”, “che ha il filo nello stomaco”) ,  costruisce una tela “labirintica” o si muove appeso al filo della propria saliva. Da ARK trae origine anche  “archetipo”. Non sarà dunque inutile vedere come in questo libro si tessono i fili di questo importante “tipo”.
 
Quello che sto esponendo è una procedura, logica quanto alle modalità di connessione dei dati, e analogica quanto ai dati che vengono connessi. Vale a dire che occorre distinguere tra la congerie di cose  che vengono collegate ( perfettamente sostituibili con altre, omologhe o semanticamente ed esperienzialmente affini – e questo è terreno d’analogia) e le modalità del loro collegamento
(che è spazio della logica)  riconducibili a un'unica tecnica d’assemblaggio, la stessa che presiede  le forme d’arte e il  metodo scientifico. In tal senso ogni processo, soddisfatto il postulato di contiguità semantica tra i dati da assemblare, è sempre  coerente perché i dati sono in un rapporto di equivalenza e di simultaneità temporale e vengono ispezionati  e “processati” tutti insieme, senza gerarchia, sì che potremmo fare il percorso inverso (dall’analogia alla logica) senza che risulti alterato il “significato dei significati”, il metasignificato.
 
Il fatto, tuttavia, che il sistema simbolico si dimostri, alla mia indagine, come coerente, non significa che esso sia anche vero e reale. Anzi, non v’è alcuna relazione concreta tra i dati a meno che non cominci a ragionare per classi e “tipi logici”, il che non mi lascia esente da altri problemi.
 
Quando vogliamo comprendere qualcosa, procediamo a paragonare questo qualcosa con altre cose. E’ un procedimento alquanto bizzarro e che consiste nello spiegare una cosa con una cosa che le somiglia. Solo matematica e logica formale fanno se stesse oggetto di analisi e conoscenza attraverso se stesse, il che ha consentito a qualcuno di avere intuizioni importanti in ordine anche all’essere di dio - contraddicendosi, comunque, formalmente col  mettere sullo steso piano “essere” e “dio”, e cioè parametrando anche in questo caso una cosa con un’altra, analogicamente. Per tutte le  attività di conoscenza siamo abituati a paragonare i processi naturali con quelli della mente, il che pone l’altro famoso problema di physis (natura) e nomos (legge, legamenti) : la mia mente, cioè, rispecchia i processi della natura o ne è indipendente?
 
La sequela di deduzioni in ordine a “ragno” è abbastanza pedissequo e fa riferimento a “loci” della natura. L ’ho fatto forse  apposta trattandosi qui di  parlare di un libro scritto coi piedi: quelli della danza, il piede metrico. Questa sequela, altresì, obbedisce a una forza armonica d’attrazione, vale a dire il collegare cose molto lontane tra loro. Forma armonica d’attrazione e distanza delle cose da connettere sono direttamente proporzionali, vale a dire: maggiore è la distanza tra le cose da connettere, più intensa è la forza armonica d’attrazione, che possiamo individuare con il saper sentire ovvero, nel nostro caso, con la grande energia che trabocca dalla trance dei tarantati sulla base delle connessioni tra simboli, derivanti a loro volta da condizioni di vita e rapporti di socializzazione abissali. Il “saper sentire” , a sua volta, introdurrebbe la questione dei “memi”, il comportamento memetico. Il “meme” funziona come il gene e si riferisce alla trasmissione di informazioni genetiche insieme con  comportamenti culturali identificabili con un “modo di pensare”. La “taranta”, in quanto comportamento, rito trasmesso alla comunità e mito, ha tutte le caratteristiche che contraddistinguono un “meme” e lo è soprattutto per la sua appartenenza all’universo simbolico prodotto in noi dalla natura. Anche la memetica trae origine dall’osservazione di fatti naturali, come se gli atomi di Democrito piovessero su ogni generazione di umani con lo stesso angolo d’urto,  come se il prodotto dei clinamina fosse identico per tutte le società.
I sottoinsiemi di “tarantola” : la danza, la musica, i colori, la socializzazione, la possessione (che prevede l’ingresso di un ente in un altro ed  è anche il “possedere” dell’atto erotico)  traggono spunto da altri collegamenti coerenti con il mondo fisico: la danza, pertanto, ripeterà il moto circolare della ragnatela e il labirinto dei pianeti. La musica, che ha molte valenze astrali (“astrazione”) sarà di tipo compulsivo e affidata a strumenti-simbolo: le corde d’argento del violino  rinviano al filo della ragnatela; il tamburo imita il battere del piede che a sua volta ripete il ritmo vitale del cuore; la fisarmonica ripete il respiro, lo pneuma. Dunque i tre strumenti rappresentano la voce (il grido del violino), il movimento (il piede pirrico), il respiro (fisarmonica, i polmoni), vale a dire gli organi che immediatamente entrano in gioco neuromotorio, e che manifestano maggiormente col loro agitarsi la presenza del “dio”. Non è per caso, allora, che in un racconto di Cilento, di cui parleremo più avanti, gli organi di senso e di moto che entrano subito in gioco per un gioco del nervo vago, siano proprio , e proprio in questo ordine, il piede, il respiro, la voce, elementi, altresì, tenuti in alta considerazione dalla biodanza contemporanea.
Ma entriamo nel merito di Mordi e fuggi.
E’ un  libro di una muta , i narratori, che eseguono   una danza circolare. La scrittura qui sostituisce gli strumenti della pizzica.; ha , cioè, la stessa funzione “incantatoria-liberatoria- esorcistica” . Ma il tarantismo appartiene all’ oralità mentre la scrittura è la tecnologia analitica del pensare. Gli scrittori hanno dunque portato a sintesi due apparati cognitivi (oralità-scrittura)  il che è già un’operazione tarantica. I racconti seguono, ognuno con il proprio stile, storie e storie di storie. L’oralità si nasconde nei  simboli sottostanti i personaggi ed è evidente nei loro allegati percettivi. Ripetono (né potrebbe essere altrimenti)  la sequela analogica prima descritta a proposito di “ragno”. Le motivazioni degli scrittori che si sono riuniti per i loro riti in questa antologia, sono certamente identiche a quelle delle tarantate. La scrittura (intesa ora come “azione”) è la risposta a un insieme di stimoli (e lo stimulus è un attrezzo appuntito, morde) generati dalla dissonanza che produce la scrittura come momento di ricognizione per riportare in coerenza il proprio sistema.
Senonchè in questi autori   il veleno viene “rimediato”  col più potente dei veleni (il silenzio della pagina, che morde e fugge generando uno strano rapporto salvatore-vittima.carnefice dell’autore col proprio prodotto salivare, la scrittura).  Queste sono storie di interstizi che vengono esplorati con la speranza di vedere veramente la tarantola, vale a dire di recuperare unità di visione-azione-comportamento, anche se in delirio. E’ facile vedere i personaggi di tutti i racconti formare un’unica  paranza danzante, scambiarsi i ruoli e il numero di pagina, trasmigrare, spiarsi. Si comportano, cioè, come la catena polimerica del simbolo., praticano una metamorfosi. Dopo il “morso”, fuggono nelle storie degli altri. La metamorfosi  è così  riuscita. Infatti, leggendo, con l’antidoto sulla scrivania, i sedici racconti ( non ho ancora capito perché 16 e non 12 o 24: ma faccio notare che 16 è la somma degli occhi e delle zampe del ragno e che la tela è un ottagono, a parte il “sedici” che è, qabbalisticamente, il doppio di otto) sono omogenei perché narrano appunto fatti interstiziali, non plateali, chiedono al lettore di andare a trovare la sua straordinaria taranta  in fatti ordinari, quotidiani perché, come si sa, “la normalità è uno stato di emergenza”.
Ogni racconto ha il suo totem: uno scorzone, uno scorpione, una farfalla,uno scarafaggio... Questi totem non si sono dati la voce, vale a dire che gli autori non si sono riuniti preventivamente in redazione per elaborare un progetto comune con indicatori simili.  La similarità dei racconti li rende ancora più interessanti dimostrando un analogo (e storico) “saper sentire”, un identico approccio sulle cui cause non indaghiamo, per ora, qui dove invece su tre racconti esemplari (ma sono tutti bellissimi) ai fini della verifica degli assunti precedentemente dichiarati.
 
 
Portavo una testa di morto
(Carlo  Lucarelli)
 
La storia è questa: siamo sul finire della seconda guerra mondiale, nel Salento. Il narratore è un soldato che ricorda un orribile episodio, in “preda al rimorso” .Un gruppo di miliziani delle SS , tra cui un mongolo, si ferma a un casolare e, dopo aver saccheggiato , imbottiti di vino, costringono la famiglia che l’abitava a suonare Si intona una pizzica che il  soldato, componente della squadraccia,   riconosce. Esige che una ragazza, giovanissima, danzi. Alla fine della danza il mongolo sgozza la fanciulla. La casa viene bruciata. Il narratore portava sul cappello di SS l’emblema di un teschio.
 
Questo racconto è il più breve della raccolta ma anche il più lungo. E’ breve in ordine alla sinteticità e asetticità dei fatti narrati; è lungo in ordine alle cose implicite.
Lo spazio dove si svolge il racconto   è una terra i cui abitanti hanno radici culturali greche. Il tempo degli avvenimenti è quello della  seconda guerra mondiale. Le SS bevono molto vino dopo essersi sedute sotto un albero di ulivo. Si prepara in questo modo la scena del delitto. Dal punto di vista simbolico, l’inserimento della catena grecità-guerra (intesa come orgia di distruzione)-vino-ulivo  prepara,invece , la scena del sacrificio. Quasi di soppiatto appaiono anche altri elementi rituali: il pane, il coltello che il mongolo usava per scannare gli agnelli. Va annotato che il mongolo è l’unico del gruppo a non avere sul berretto il fregio di un teschio ed è l’ uomo che materialmente compie il delitto-sacrificio. Va altresì evidenziato che il soldato che ricorda  è una persona molto colta: già era stato nel Salento anni prima per approfondire studi di storia dell’arte. Dunque, quello che accadrà appartiene a una dimensione al di là della cultura, ancestrale, da periodo paleolitico, quando gli uomini avevano i tratti somatici mongoli, quando a Delfi si sacrificavano persone poi sostituite, come nel dionisismo, da una persona con malformazioni (il fàrmakon) e, dopo ancora,  da un animale. Non è, ovviamente, che si sia proceduto a sostituire la persona normale con quella deforme e poi con l’animale per motivi pietistici o etici. Il processo è avvenuto perché ci si è resi conto, sulla base di nuove analogie, che il modo più coerente di sacrificio a deità terribili era quello dell’animale a sua volta rappresentativo dell’ antenato teriomorfo.
Le relazioni coltello-per-gli-agnelli e  sgozzare-la-fanciulla-come-un agnello, il vino, la musica, sono precisamente gli ingredienti del rito arcaico.
Mi sono chiesto a lungo perché Lucarelli avesse inserito un mongolo nel suo racconto e perché questo mongolo uccide materialmente la fanciulla. Ho pensato, ovviamente, al mongolo come a qualcosa di lontano, abissale sia geograficamente che inconsciamente. Ma questo non spiega il perché sia proprio lui il boia. Ho supposto che l’uccisione, lo sporcarsi le mani sia stato delegato a un essere ritenuto inferiore dal nazismo. Ma neanche regge se penso a quello che hanno fatto i nazisti. L’unico a non portare sul berretto il teschio –mi sono detto- è lui  perché è sufficiente, per rappresentare la morte, la sua testa (l’iconografia ci presenta i mongoli calvi,ossuti) ma anche questa ipotesi mi sembrava debole.  La soluzione me l’ha fatta vedere Antonio Vitolo parlando dell’etimo di “tarantola”, che deriva da Taras, fondatore di Taranto e che “taras” significa  “sconosciuto”.  Da qui a Taras Bul ba di Gogol’ il passo è molto breve. Sarei comunque molto interessato a sapere dalla testimonianza diretta di Lucarelli la funzione di questo mongolo nel suo racconto.
La fanciulla è terrorizzata dal fregio sulla bustina del militare. Anche gli altri tre tedeschi lo portano ma è di quello del narratore che la fanciulla ha terrore   perché è stato il primo che ha visto quando i soldati hanno fatto irruzione nella casa dove dormiva ( portando fiaccole come nei riti arcaici). Si tratta, anche qui, di un’apparizione infernale e demoniaca, come se la ragazza avesse visto materializzarsi l’incubo delle proprie origini, dei racconti intorno al fuoco, come se la tarantola avesse assunto sembianze umane, confermando clamorosamente le dicerie sottovoce delle anziane del paese.
 
 
 
E’ chiaro che la fanciulla che danza è Proserpina e il soldato è Ade.
Lucarelli propone, dunque, una storia narrata come un resoconto di cronaca e lo stile molto distaccato del narratore finisce per essere inquietante.
La vittima sembra consapevole di partecipare a un rito forse anche atteso. Dimentica, nel ricordo del narratore, la situazione, la musica, la sua uccisione e, per questo, sopravvive. O, davanti alla visione della morte, sa che per cacciarla via occorre danzare, eseguire l’esorcismo musicale e coreutico, ed è forse sicura che ciò che vede non esiste, che è in uno stato di sonno, che si risveglierà come si risveglia la terra.
Lucarelli non ci dice se dopo la morte della fanciulla la terra abbia continuato a produrre frutti.
Da dove traiamo questi elementi di lettura? Non è che ci stiamo inventando tutto? Il soldato “porta” una testa di morte. Che si tratti di un’icona cucita sul berretto lo apprendiamo durante la narrazione. Astutamente, Lucarelli , scegliendo questo titolo, ci dà a intendere, all’inizio, che c’è qualcuno che cammina con una testa di morto sotto il braccio, una specie di Amleto. Durante la narrazione l’ambiguità del titolo viene svelata e, paradossalmente, ci accorgiamo che veramente il soldato porta una testa di morto. Solo che ce l’ha sul  collo ed è la sua, quella di migliaia di anni fa, perché
nell’evento salentino rimosso per decenni e ora riemerso si catapultano tutte insieme le dinamiche di attrazione-repulsione per il sangue che provava la muta di cacciatori poi diventati soldati.
 “Testa di morto” è anche il nome di una farfalla ( è lui l’insetto del racconto) e si sa che la farfalla rinvia alla metempsicosi sia pitagorica che eleusina (Eleusi era sacra a Demetra, madre di Persefone).Questa farfalla si chiama così perché sul dorso ha disegni che ricordano alla nostra percezione un teschio. I suoi predatori vedono probabilmente un ragno e su questo doppio simbolismo (farfalla-ragno) c’è da interrogarsi trasferendolo ai personaggi che in tal modo interpretano un ruolo ineluttabile o, addirittura, indecidibile. Questo insetto appartiene alla famiglia delle Sphingidae e il  suo nome scientifico è Acherontia Atropos. Dunque non c’è solo la lontananza simbolica della Mongolia ma anche quella dell’Egitto e la vicinissima Grecia dionisiaca, c’è l’Acheronte e il flusso musicale è precisamente l’acqua che il soldato-Caronte fa attraversare alla fanciulla-Euridice. Non è allora un “insetto” (in-secare: gli strati del racconto sono di Lucarelli sono “intersecati”) che viene da lontano: ci è laterale, ci è vicinissimo, a meno di un palmo ma non possiamo toccarlo: è la nostra psiche.
Va infine annotato che “Testa di morto” in lingua tedesca è totenkopf ,  nome della più bestiale divisione delle waffen SS., il cui segno, lo svastica o croce uncinata, ha radici altrettanto arcaiche quanto la sfinge.
La fanciulla danza davanti alla morte una  danza macabra, una di quelle danze, cioè, in cui nel medioevo si raffiguravano tutti i ceti sociali danzanti con scheletri, specialmente dopo la peste del 1348. Sarebbe molto stimolante immaginare la storia dal punto di vista della vittima più che del carnefice. Scopriremmo forse che la falena che danza è la fanciulla, attratta dalla luce della morte.
 
Morsi da  Lucarelli, fuggiamo dai suoi enigma e  ripariamo tra le righe di un racconto il cui titolo sembra promettere serenità:
 
Incantatori
(Giovanna Bandini)
 
Una fotografa salentina si trova a Valencia per un reportage sulla festa di Las Fallas, il giorno di San Giuseppe. La festa consiste in una interminabile e suntuosissima processione. La città è ornata con Fallas, scene di cartapesta, che finiranno ritualmente bruciate. La fotografa nota una bambina, vestita in modo diverso dalle altre figuranti e vede il proprio sé infantile nella processione. I colori e il clima della festa valenciana la riportano ai colori e al clima delle feste del suo paese salentino, così come il flamenco degli zingari è associato analogicamente (ma anche storicamente) alla pizzica del suo paese. Alla plaza de toros assiste alla corrida. Le sembra che il torero mormori
 
 
 
 
 
qualcosa e scatta una foto. Impulsivamente torna nel Salento dove viene accolta dalla madre e, soprattutto, dalla nonna che aveva sostituito suo padre morto da giovane. La ragazza mostra alla matriarca le foto scattate a Valencia. La nonna individua subito la bambina della processione e ne sottolinea  la somiglianza fisica e comportamentale con la nipote prima dell’adolescenza. L’ava conferma altresì alla nipote che il torero stava parlando e per lei è ovvio che stesse  parlando col toro, chiamandolo per nome. Stanca per il viaggio la protagonista  va a dormire ma non vi riesce. Si alza, esce fuori. Ascolta qualcuno parlare sottovoce: è la nonna che si rivolge a un serpente invitandolo ad andar via. Lo chiama “Paolo”. Nel chiedere spiegazioni, la nonna  minimizza l’accaduto, anzi lo nega e fa notare alla ragazza che lei ha sognato tutto. La ragazza si convince. Infatti stava dormendo. Riprende le foto, per ingannare il tempo. Scopre che la bambina valenciana è scomparsa dalla foto.
 
Alla magia nera, alla nigredo di Lucarelli fa riscontro la magia bianca di Bandini. Anche con lei siamo in un ambiente di fatturazioni: la processione valenciana inizia in Primavera, Las Fallas sono incantesimi di carta, apparenze di apparizioni. La maga che opera i prodigi è la nonna, descritta con l’ elemento maschile della folta peluria sul mento. Ricordiamo che la donna con la barba è icona rinvenuta presso varie tombe pre e protostoriche e che unisce gli elementi maschili e femminili. E’ una delle prime icone del Mediterraneo. Ulteriori elementi della magia e dell’illusione  sono gli zingari (notoriamente incantatori), il flamenco “fiammeggiante” che  anticipa la danza del fuoco, i grandi falò  in cui finiranno le costruzioni-apparizioni di cartapesta col loro corredo di luminarie. Il racconto si incentra su una terna di donne-streghe che vivono isolate, sena presenza maschile. L’unico maschio, il padre della protagonista, è premorto e se ne avverte talvolta il respiro nelle stanze della memoria.  E’ intuitivo che, ricordo ancestrale di quando la donna era raccoglitrice sviluppando culture diverse dal maschio, compaia lo strumento principale degli incantesimi, le erbe,  e in particolare il rosmarino, simbolo dell’amore, del ricordo, della morte e chiamata anche “pianta dell’incenso”. E’ infatti una pianta di rosmarino che protegge la ragazza dalla visione dell’incontro tra la nonna e il serpente, episodio che, su altri versanti di lettura, ci porta a inferire una “protezione” di carattere sessuale (la nonna è molto legata al ricordo della preadolescenza della nipote) da parte di una centenaria che sa molte cose su sesso-vita-morte e che
conosce le forze del mondo, e forse le condivide e domina. Tra l’altro, chiama il serpente ”Paolo”, che può essere sia il S. Paolo esorcista sotto la scorza del serpente  che il semplice nome di un fidanzato (chè, si sa, le streghe se la fanno con Belzebù sotto varie forme). La magia del racconto riguarda il rito del ritorno, gira nell’ombra di un sufi. Incantesimi è il racconto  più leggero e barocco della collezione antologica. La protagonista è fotografa, dunque è una che ripropone tecnicamente la realtà con l’obiettivo, la “documenta”, obiettivamente. Nel racconto è diverso: la fotografa scopre qualcosa che vive negli interstizi della realtà. Il suo “scattare” foto diventa l’impulso a ritornare e l’impulso è, appunto, uno “scatto”, un essere rimorsi e fuggire verso dove si ebbe il primo morso, al ceppone della prima esperienza sessuale vissuta anch’essa come rituale, tradizione. Il fatto che la bambina della foto scompaia è particolarmente interessante, quasi un prezzo, anch’esso sacrificale: l’infanzia è una Falla, dominata da esseri strani, e chi vorrà leggere il libro può meditare su molti rinvii intratestuali. Un esempio: la prima scena è a Valencia. La bambina della foto scompare. Valencia nasconde “vale””, “addio”. Anche Falla è parola molto intrigante.  Ho detto che qui  il tarantismo è una faccenda di interstizi, è  psiche che guarda eros mentre dorme (ma è più probabile che,come la protagonista del racconto,  psiche dorma e  sogni di guardare eros). Bandini gioca con apparenza e apparizione, l’una anestetizza l’altra e, considerato che è archeologa, non le è forse estranea una frequentazione con Apuleio, il berbero (non l’apulo) autore del De Magia perché questo racconto è bello come una favola milesia. 
 
 
 
L’incantesimo racchiude vaghezza, il vagare,  come l’ultimo racconto scelto:
 
Vago
(Antonella Cilento)
 
Sono scorci di vita di una ragazza con problemi di panico. Non c’è una trama quanto un rincorrersi di situazioni, lo sfogliare a caso le pagine di un manoscritto segreto, quasi un  diario, delle ragazze. Si narrano situazioni , immagini e intrecci di relazioni tra persone e tra queste e le cose che hanno lasciato il segno nella mente della protagonista, osservate ora come allora. L’ esame di realtà genera connessioni mentali inedite, anche neuronali. La protagonista frequenta, tra l’altro, corsi di biodanza, vaga col dolore che le dà il suo nervo vago in cerca di un rimedio, di un antidoto a una malattia che si sta trasformando in anoressia. Solo nella musica degli zingari, incontrati durante una passeggiata a Punta Campanella, guardata e guidata dagli occhi di una vecchia che mastica erbe amare, trova quiete e il nervo vago , se non può vagare, almeno si attorciglia su se stesso in un recinto sacro e musicato.
 
Il titolo del racconto indica anche un’azione: “Io vago”. Antonella Cilento si tiene sul vago, letteralmente,  in un ambiente naturalistico, archeologico e antropologico molto denso. Ieranto possiede una baia splendidissima, testimonianze archeologiche di prim’ordine e non notissime, archeologia industriale, case col tetto di lapillo, muretti a secco: un pezzo di Salento sulla penisola sorrentina. Questa stratificazione umana  viene  metabolizzati dall’autrice che si insegue  in uno scenario dove la nostra immaginazione collocò le sirene gli esseri mitici  metàquesto-metàquello. Qui l’anima, metàspirito-metàcorpo,  trema,  pronta a staccarsi dalla terra. Il nervo fa male alla protagonista, Lallina, per queste tensioni e trazioni. Il suo tarantismo (a parte la bellezza da delirio dei luoghi) è questo: un sussultare, l’attesa di qualcuno che spinga la sua anima in un precipizio. In “Vago”  la taranta che punge è l’anima più che lo scarafaggio visto  su un muro d’ospedale. E Lallina vuole cadere in un precipizio  per vedere se sa veramente volare, per  dare scacco al panico lasciandolo da solo col filo del nervo vago in mano, senza aquilone. La danza girovaga della Cilento   parte dal sobbalzo  dei piedi, giunge al cuore, produce dissonanze, crea agitazione (ma fredda), fa aumentare il ritmo del respiro, ritorna ai piedi sotto forma di danza. Ieranto è, ovviamente, un paesaggio lunare, “femmineo”. Il cammino della protagonista è neuronale essendo la strada da percorrere quasi la mappa del sistema nervoso, quasi una   radiografia del proprio pensare e malessere. A Ieranto l’anima scopre il fossile più antico dell’ animus,  simile a una medusa: un cervello con un grande lungo tentacolo, il nervo vago. Ci viene proposta anche l’ombra di questo fossile attraverso  vaghi d’ambra che somigliano alle vertebre. Nella trasparenza dell’ambra , in queste lastre radiografiche del tempo, nella loro forma sbriciolata  nei frammenti della percezione, Lallina riconosce una legge e un codice, si sente particola dell’evoluzione : la struttura molecolare dell’ ambra, davanti alla quale Lallina rimane rapita come se riconoscesse qualcosa, forse la resina con la quale fu impastata, ripete l’archeologia dell’esserci nel mondo. L’ambra e l’ombra come sostanze  organiche, materiale di risulta di un processo di trasudorazione vegetale.
Dal cuore il sussulto arriva al cervello e da lì giunge allo stomaco provocando altri sussulti, conati di vomito, nausea. Un fulmine freddo produce attriti di selce.
La protagonista di “Vago” registra gli stessi sintomi ansiosi e impulsivi della protagonista di “Incantatori”. E’ interessante che due scrittrici abbiano diagnosticato  il proprio io tarantato tramite gli stessi sintomi. C’ ’è, in Lallina, un accenno di schizofrenia, di allucinazioni. Il morso del suo ragno è antichissimo, risale al tempo in cui viveva sulle rive della baia di Ieranto (radice Ieròs, sacro) milioni di anni fa, prima ancora che la luna diventasse fredda come freddo e cristallizzato è ornai il veleno del morso.  
 
 
 
Il nervo vago sa essere molto preciso, se vuole” e questa precisione , lui che è un residuo arcaico del nostro cervello di serpente, la mostra soprattutto esegue un lavoro mestico di quando riconosce ciò che gli apparteneva, i momenti della sua evoluzione nascosti in cose minimali:  le cose: le colonne smontate delle sepolture (costruiscono) percorsi illeggibili., come sono illeggibili le costellazioni, perché, aggiungiamo, è chiaro che anche a Dio fa male il suo essere Vago. Come in natura, anche nella mente ci sono impronte fossili, ricordi che toccano il nervo e fratturano l’osso. Quella della Cilento è una scrittura vertebrale. Per questo Lallina è sempre curva, obbediente alle inclinazioni delle immagini. Lallina è una che crede di sbagliare sempre. “Dov’è l’errore?”, si chiede. L’errore è nell’errare del vago, è lì il morso, l’inganno del serpente biblico nel paradiso di Ieranto, che si ripensa nei  fermagli d’ambra delle teche. I  fermagli delle  trecce di Lallina lo evocano come fanno i monili d’oro che vogliono ricordare al sole che anche chi li porta è un essere di luce. Come Eliade, morsa dal sole sotto forma di serpente e poi divenuto bracciale, Lallina è innocente, non sa nulla di tarante. Segue corsi di biodanza  e quando va in discoteca precipita trance attaccata dal panico. Trasuda un umore atrabiliare che o induce all’ingurgito o al rigurgito.
Anche in questo racconto c’è una punta ed è quella estrema  di   un viaggio metà fisico metà iniziatico, Punta Campanella, dove si presentano gli zingari sciamani.. E zingaro significa violino. E violino significa tarantismo. Tra questi zingari c’è una vecchia, forse la stessa del racconto di bandini, accovacciata sulla propria storia, mentre mastica erbe. Forse è il residuo di sposa del vago Dioniso. Forse è Aracne. O forse ancora è la  vecchia che nel nostro presepe salta addosso a pulcinella.  Questa vecchia, qui, non ha la barba ma fa anche lei  un’azione tipicamente maschile: fuma la pipa. E la fuma  con la bocca pelosa di ragno-totem che sovrintende alla cerimonia in suo onore. Io ho visto saliva densa come una sartìa scenderle dagli angoli della bocca. E’ in questo cerchio di danzatori che Lallina fa finalmente movimenti che, come dichiara,  non si possono  calcolare, e dunque incalcolabili, pretemporali e prespaziali,  accompaganata dal suo doppio mitico, Eliade, che, come in sogno, riemerge dalle acque che  il padre Tirreno sbatte sulla Terra con onde alte come colline ai piedi della danza , sui licheni della montagna . I licheni fanno da pendanti al nervo vago. Sono infatti  tra i più diffusi organismi della terra, sono la simbiosi tra un fungo e un'alga (le due personae del racconto:Eliade, acquatica; Lallina, terrestre) e sono la forma di vita più resistente ed elementare: dai ghiacci del polo alle rocce delle più alte montagne, in condizioni di vita difficilissime, dai freddi più intensi all'insolazione delle rocce. Sono dunque il simbolo degli ultimi terreni selvaggi, dell'esplorazione e dell'avventura, della perseveranza verso un obiettivo. Ma sono anche il simbolo della complessità , da intendere come il raggiungimento di un'armonia con la natura.

01/01/2008 – Coolclub.it
Un pretesto

Quando una tradizione diventa fenomeno se ne può fare qualsiasi cosa. Diventa uno spunto, un marchio, un tema. Ed è questa l’operazione di Manni Editori che esce con Mordi e Fuggi, un’antologia di scrittori che si confrontano in modo più o meno diretto con il mito della taranta. Giovani penne salentine, più blasonati nomi della nuova letteratura come Carlo Lucarelli e Gianluca Morozzi, ospiti d’eccezione innamorati del Salento (Teresa De Sio) si confrontano con l’argomento. Un modo per “evadere” dalla Taranta, per esorcizzarla o comunque per trattarla in modo diverso, come uno sfondo, un personaggio, un pretesto. Quello che rimane al di là dell’effetto “mordi e fuggi” da istant book è la raccolta di alcuni dei nomi più interessanti di quest’annata letteraria.