Recensioni, di Maria Cristina Coppini
Niccolò Vivarelli si è ispirato a un fatto di cronaca nera che negli anni novanta aveva seguito come giornalista, l'omicidio di un residente in una delle prime comunità italiane per il recupero dei tossicodipenti, che portò anche alla condanna di Roberto Muccioli, il carismatico fondatore. L'autore adopera un linguaggio che è credibilmente simile a quello usato dai tossicodipendenti e in particolare da quelli "ripuliti", che hanno vissuto esperienze di recupero. Tanto è vero che il lettore con il passare delle pagine quasi si convince che il libro sia stato scritto proprio da Leandro, il protagonista, il quale per terminare il suo percorso e riprendersi il lavoro, per tornare a essere padrone di se stesso, si era trovato a dover scendere a una compromesso sulla verità, a promettere di non informare le autorità su quanto era stato testimone. Forse Leandro, attraverso un libro, avrebbe potuto trovare il modo di mantenere fede alla parola data e denunciare le coercizioni fisiche e psicologiche, i sospetti di connivenza dei responsasbili della comunità con i trafficanti di droga, le umiliazioni, i ricatti, i giochi di potere. In realtà in un'intervista Vivarelli ha rivelato che questa vicenda violenta ha continuato a tormentarlo per anni fino a quando non ha deciso di scriverne la storia, "mescolando un po' le carte con licenza letteraria". Uno stile lineare, con immagni efficaci e talvolta poetiche, che riporta descrizioni di Firenze e dintorni come era negli anni novanta, con le cabine telefoniche a gettoni, i primi cellulari, la novità della vidimazione del biglietto ferroviario, il motorino Ciao e il Suzuki Burgman. Due omicidi, paura, desolazione, dipendenza, traffici di ogni tipo, un po' di sesso e forse anche amore.