La malinconia del non ritorno, di Elisabetta Liguori
Stanno cambiando gli emigranti? Nella qualità e nell’incertezza, forse, ma ancora fanno valige.
Nicola Papa è al suo esordio narrativo e scrive un libro sulla lontananza, un libro sospeso tra la casa e l’ altrove; un libro su quello che manca ad ogni viaggio. Il ritorno, appunto. Un tema che mi è caro, qui trattato con cenni di lirica nostalgia.
Nicola Papa si dà del Tu. Con onestà, anche tecnica, senza trucchi. Un espediente originale e di raffinato artigianato, il suo, per raccontare e raccontarsi ancora una volta al Sud, per guardarsi in faccia e magari dirsene di tutti i colori. Sono, infatti, due le anime che, come anche in copertina, si scrutano con finta distrazione per circa centoventi pagine. Perché quello che, in questo lungo racconto/duello, muove il protagonista e la voce narrante, vittime ambedue di una dolce cattività meridiana che si rinnova, sembra essere un rimprovero. Perché te ne sei andato? Perché la gente come te, di belle speranze, giovane e aitante, dai grandi sogni utili, decide di abbandonare la sua terra? Cosa la spinge alla fuga con una novella trolley? Cosa e chi ama davvero la gente come te? Cosa le impedisce di cambiare idea? Nel tempo, nel tempo, e nel tempo ancora. Queste sono le domande rivolte da Papa a se stesso, già contenenti un giudizio chiaro e duro.
Andiamo per ordine. Il protagonista scelto da Papa, elegantemente snob, raffinato nei modi, colto, dal cuore romantico ed eroico, come un notturno di Chopin, migrato per necessità in un nord imprecisato, ritorna a Lecce, un giorno che è quasi Natale. Il Sud che ritrova è netto, luminoso nei suoi riferimenti geografici, cromatici, olfattivi; il Nord che lo aspetta e che descrive a chi non lo conosce, invece, è una pena incerta, una vaga smania di nebbia e pioggerellina.
A causa di una circostanza imprevista, questo giovane uomo, con il cappotto di buona fattura, è costretto a rimanere in quel sud, che era venuto a ritrovare solo per il breve durare di una vacanza, per un periodo ben più lungo di quello previsto. L’incidente diventa il suo movente. Lo costringe alla riflessione, lo induce a infilarsi ancora una volta tra la paglia del nido ad annusare. A guardarsi attorno, scoprendo che ben poco è cambiato e che forse l’unica realtà ad essere cresciuta è la rabbia.
Papa racconta così la partenza, il ritorno e lo struggente enigma del rimanere, con il ritmo lento di una passeggiata. Il suo alter ego, infatti, cammina come Mrs Dalloway tra fiori, panchine, odori, facce, mentre il narratore lo osserva, ne pungola i pensieri, ne rinnova i ricordi e, all’interno di un interrotto flusso di coscienza, lo spinge alla chiacchiera. L’andatura oziosa di chi passeggia sembra produrre il miraggio afoso della scelta libera tra la partenza e il ritorno. Sembra. Così il giovane uomo si gode il piacere che producono certe immagini evanescenti di libertà, giovinezza e potere e quasi ci crede. Diventano suoi interlocutori: la donna amata un tempo, divenuta sempre più aggressiva, i due fratelli che hanno fatto scelte di vita ben differenti, l’insinuante cucina materna, il barbiere disilluso, gli amici più cari. Il giovane uomo non sa ancora che nel suo sud, spesso, una faccia del passato può nascondere un nemico involontario. Il ricordo può partorire mostri. Arriva proprio a quel punto del suo andare a spasso, la strana epifania di un accoltellamento, circostanza che, per un breve momento, potrebbe far credere al lettore che le sorti del gran camminatore siano mutate, la rotta invertita. Il potere cessato o, al contrario, addirittura accresciuto dal rischio. Solo per un breve momento. Il giovane uomo, che ha difeso la sua bella dalla rabbia, giunta con una lama da un’imprecisata oscurità sociale, viene creduto un eroe, e gli eroi, si sa, hanno degli obblighi nei confronti dell’intera umanità. Il ragazzo, ormai convalescente, è posto dunque davanti al bivio, ma non è libero affatto.
L’esatta misura del conflitto interiore, vissuto a quel punto dal protagonista della vicenda, è data dal suo ritornare con la mente, con frequenza e quasi con fastidio, a postulati di leggi economiche, apprese per studio o lavoro; all’analisi dettagliata dei flussi di crescita e sviluppo meridionale, all’osservazione di una politica economica dissennata perseguita per anni; alla macroeconomia mandata in malora, tutto questo all’interno di digressioni scritte in un corsivo ostile, che fanno da controcanto, da ago, auspicabilmente da leva, alle leggi del cuore e della memoria, occupando interi capitoli della narrazione complessiva.
Proprio come Mrs Dalloway, il nostro migrante raccoglie, lungo una strada sonnacchiosa e meditabonda, fiori che gli fanno male. Quello che vede, ascolta, sia esso un pezzo di cielo, una melodia o un sintagma dialettale, lo riporta al passato. Diventa una vecchia cartolina. Lo tormenta.
Il suo sud è un letto sfatto, accogliente per quanto scomposto, con l’impronta del proprio corpo ancora tra le lenzuola profumate, ma di lino grezzo e sgualcito; è la memoria da custodire, è l’amore che non è stato, ma che, caparbio, rimane. Lo stesso sud è però anche violenza, lentezza, substrato clientelare, piccole illegalità, sgambetto, mezzucci di facile arricchimento e opacità. Come tollerarlo? Come non amarlo? Come intervenire?
E allora scappare appare necessario, l’unica via, anche se, a volte, proprio quella fuga può sembrare la causa di tutti i mali possibili, proprio come, a giorno alto, uscire a fatica dal proprio letto, caldo e sicuro, con sul groppone una strana febbre che non accenna a calare.
Non siamo dinanzi ad una storia autobiografica; l’autore si dichiara anzi ben più affine al personaggio femminile, alla lei della storia: donna forte, provocatoria e provocante, che del sud racconta la modernità, la fatica, la testardaggine, la passione. E il coraggio che pure esiste e che segna una strada alternativa, che dimenticare sarebbe pura cecità.
Lui è invece l’uomo che s’arrende; l’uomo che non può fare ne più né meno di quello che fa e che sembra scontrarsi con la caparbietà o l’incoscienza di quanto gli sono accanto e che lui ama con la disperazione insulsa delle radici. Lui è l’eroe che dal confronto esce perdente. L’eroe che delude.
L’ eroe imperfetto.
Che sia Lui, o Lei a viverlo, quel che è certo è che tutto lo scritto è attraversato dalla sincera malinconia che nasce dall’apprendimento involontario dei propri limiti e di quelli del proprio tempo. Tutto è abilmente giocato sulle differenze di clima, di desiderio, d’umore, tra il sud e il nord di tutti i mondi possibili, posti dinanzi ad un immaginario start.
Tutto sembra avere a che fare con il ritardo, persino l’amore per una donna bellissima, amore senza futuro, pur carico di delicato, incompiuto erotismo.
È vero: questo sud sfrenato e sprecone è oggettivamente in ritardo. Per calcoli e intuito, il sud è in ritardo. Questa terra, alla fine, sembra quasi un’invenzione: qualcosa di simile ad una giovinezza sospesa nel tempo, all’errore ancora possibile, al miraggio della passione, della bellezza. Tutto ciò a cui rinunciare è necessario, insomma.
Mancano le regole al sud e le poche che sono sopravvenute nel tempo, quelle che oggi hanno messo radici, sono la sua rovina. Quindi, nessun ritorno qui è davvero ipotizzabile tra persone mature, consapevoli. Il mazzo di rose deve essere rifiutato per le sue spine.
Dacché il rimprovero che aleggia all’inizio del libro, riecheggia fino alla fine, quando s’intonano scontate quelle quattro odiose note di ‘O sole mio, quasi fossero espressione della condanna definitiva prevista per colui il quale non ha avuto il coraggio della sua personale follia.
Ehi voi, risorse umane tutte, siatene certe: alla fine, quel che si doveva fare, viene fatto, pur nella sua bruma.
Vietato il ritorno anche del cuore.