Quando la parola sconfigge il dolore, di Corrado Bagnoli
Ci sono libri necessari, parole che si impongono con la loro urgenza e che il poeta non può fare altro che assecondare, accogliere nella loro forza dirompente, a cui non si può non dare voce sulla pagina. Ti ho dato tutte le stagioni (Manni editori,pagine 48, 9 euro) si è scritto con questa forza nella carne dell’autore, prima ancora che essere il progetto di un libro di poesia.
Nasce come di schianto, nell’attraversamento della dolorosa e terribile esperienza della malattia che ha colpito la moglie del poeta: “Quando il dolore ha picchiato/ alla nostra porta non potevamo/ non farlo entrare”, comincia così una delle poesie più dure, crudeli eppure rivelatrici del centro attorno al quale si costruiscono i versi di questo libro.
Innanzitutto la decisione di guardare in faccia il male, di non fingere, di non inventarsi improbabili fughe di fronte al dolore che accade; una dignità che l’autore impara velocemente dalla sua stessa donna, così ferma nella sua decisione di lottare, nonostante le fatiche e le paure che la assalgono. Questo si traduce sulla pagina in una sorta di ossessione, nella sfida di dare un nome anche a ciò che non ha forma, che è anzi la devastazione delle forme, della vita, poiché, come voleva Luzi, il compito del poeta è dare un nome alle cose.
Ma è proprio nella nominazione, nello stare di fronte al male con questa dignità, nell’insistere sulle parole come “grumi di senso con cui ci amiamo nelle stagioni” che il poeta intravede una possibilità concreta per fronteggiare il male. E queste parole diventano il diario di un “noi” più forte della prova: nate quasi come un urlo incredulo, quasi come una ribellione di fronte all’avvento irrazionale del male, non sono più il lamento disperato di un uomo.
Nell’incedere dei versi emerge sempre più prepotentemente la voce dei due insieme, di una coralità che, proprio in questa rinnovata unità, trova la via per dare uno scacco al male, al demoniaco che divide, che separa. Il libro diventa perciò un lungo colloquio d’amore, un amore che, lo sa bene il poeta, “non è gioco di parole/ è profumo intenso che toglie/ respiro, a volte sa essere volo/..altre, è l’altra faccia della crudeltà.
” Il tema dominante, diventa l’amore che “ è qui, nel cuore/ nuovo delle cose/ che ci doniamo insieme”; un amore che “costruisce quello che il dolore distrugge”, che è “antidoto al veleno della vita”, che è la casa salda dentro cui anche il dolore può essere accolto, inspiegabile sempre, certo, ma adesso come attraversato - lui che si insinua nella carne, che lascia ferite – da uno sguardo nuovo, dalla consapevolezza nuova “che esistere è lasciare che tutto accada”, sapendo che “le parole mancano e bisogna dirle/ le pronunciamo nelle cose”. Il libro così diventa un lungo abbandono ad una vita che “è tutta di domande:/ perché andiamo ciechi sotto/ il cielo delle piccole cose infinite?/ Azzardiamo un altro mondo/ davanti al nostro male”.
E nonostante l’assenza di un Dio e di una risposta, come nella grande tradizione leopardiana, nell’ultima poesia c’è una sorta di finale rivelazione, di resa quasi, che è l’ultima grandezza della ragione che riconosce un altrove, “in tutto ciò che accade/ il senso di un mistero”.
Nato come un necessario mistero doloroso, il libro sembra chiudersi dentro una duplice consegna, non più ingenua, al mondo: l’abbraccio incondizionato alla vita reso possibile, fondato e giustificato da un amore più grande di cui il poeta diventa voce, di cui la pagina diventa testimonianza.
Ed è questo che rende il libro di Nicola Vacca a sua volta necessario per il lettore: ci troviamo davanti ad un’esperienza personalissima che sa trasformarsi in racconto emblematico; ci troviamo davanti a una poesia che, pur nella sua individuale e dolorosa sorgente, sa parlare alla vita di tutti. Quasi il poeta volesse anche qui, in questi versi così intimi, sottrarsi all’intimismo di tanta poesia contemporanea e far vibrare nelle parole, invece, come in alcuni dei suoi ultimi libri, una sorta di forza o epos comune.
E comunicarla al mondo che, come vuole l’etimologia del termine, significa “mettere insieme i doni”. Che è l’unico modo di pensare ad una poesia vera. Di fare, finalmente, quella poesia onesta di cui abbiamo tanto bisogno.