La vita di quel pesce rosso sarebbe stata più felice se avesse trovato un editor, di Elio Paoloni
Dal forum barese sulle scritture è venuto fuori, a me sembra, che lo scontro non è in atto, come i termini della polemica precedente lasciavano sospettare, tra autori ed editori. Non solo perché qualche autore, come Nicola Lagioia, è in qualche modo editore o perché in ogni caso, come dice Raffaele Gorgoni, la dicotomia autore-editore andrebbe ribaltata in favore di un’alleanza autore-editore “contro il mercato” ma perché il vero scontro è –tanto per cambiare– tra vecchi e giovani. Tra quelli che continuano a rivendicare gli sbattimenti del passato e quelli che guardano allo stallo odierno. Gli editori presenti si sono difesi ottimamente dalle accuse (a volte solo presunte) e non si può, in effetti, non riconoscere loro i meriti di un lavoro improbo. Si potrebbe continuare a eccepire sulla scarsa presenza dei volumi in libreria o sulla compresenza, nelle stesse collane, di autori considerati dagli stessi editori di diversa caratura (e destinatari di un diverso trattamento). Ma la questione che mi preme sollevare è un’altra.
È una questione che riguarda l’editoria in genere: «Magari avessimo dieci Gordon Lish (l’editor che “tagliava” Carver, ndr) in Italia, non staremmo più a piangere sulle condizioni in cui versano le patrie lettere» sostiene su Pulp Umberto Rossi, ma è naturale che mi soffermi su quella meridionale. Come ho già avuto modo di raccontare in rete (www.uffenwaken.splinder.com/post/4072942#) occupandomi dell’ottimo scrittore calabro-lucano Vincenzo Corraro, il cui Sahara Consilina è stato edito da Palomar, sono stato a lungo incerto prima di decretare la pura e semplice assenza di qualsivoglia sforzo redazionale in molti dei libri che ho letto recentemente: temevo una mia incapacità di afferrare lo spirito dei libri, che poteva consistere appunto in un’irruenza sperimentale, in uno squilibrio cercato, in una logorrea peculiare. In fondo, mi dicevo, è giusto evitare la monotonia del bello e rifinito, quell’omogeneità tombale che rende indistinguibili gli scrittori come la barrique rende uguali i vini da qualsiasi vitigno provengano. Il lavoro di chi pretende di incanalare la lava della scrittura nelle regolette della “buona composizione” è stato tanto criticato che l’evidente mancanza di interventi appare ormai come un segno di buon costume.
Da noi c’è ormai un numero cospicui di ottimi scrittori. Quasi sempre non hanno più bisogno di emigrare per pubblicare. Succede anzi che Manni pubblichi uno scrittore come Nicolangelo Barletti, nato a Roma e “adottato” dal Salento dopo trent’anni. È stato leggendo il suo Vita felice di un pesce rosso che ho sentito riaffiorare quella sensazione. La sensazione che avrei potuto godere maggiormente del libro se uno sforbiciatore indelicato lo avesse preso in carico.
È ingiusto parlare in questo modo di un libro di grandi qualità. Avrei dovuto soffermarmi sulla padronanza che dimostra Barletti, sull’intreccio del romanzo, sul tratteggio delle intersezioni tra cultura e politica, sullo scavo intorno all’imponderabilità delle parabole artistiche, sui non preponderanti ma efficaci aspetti noi. Spero lo facciano altri. Io ora, da lettore viziato, ho questa fissa dell’editing. Non mi sogno di accusare gli editori di scarsa professionalità: penso si tratti di una tendenza. Un direttore editoriale ha risposto così alle mie perplessità: «In fin dei conti, io affianco l’autore (e con lui discuto tutti gli aspetti del lavoro), non mi sostituisco a lui». Un atteggiamento rispettoso e collaborativo, insomma, forse una reazione agli interventi omologanti che sono stati adottati in passato specie verso esordienti. Un eccesso speculare e a parer mio ugualmente sbagliato.