Il “cuore” degli autori jonico-salentini, di Claudia Presicce
La lingua dei padri è quella spontanea di un popolo, quella “vissuta” tra le mura domestiche, tenuta viva nei cortili e nelle corti salentine, ma anche nelle case dei notabili, nei luoghi di lavoro, nelle piazze. Una lingua spesso rimasta fuori dai libri, ma capace di dar voce, nella poesia, ad emozioni autentiche. Contro l’oblio che minaccia il dialetto e tutto il suo bagaglio culturale, ecco nascere l’Antologia del Novecento dialettale salentino, opera in quattro volumi che da domani sarà offerta in allegato al Nuovo Quotidiano di Puglia (sovrapprezzo 7,10 euro). Un’iniziativa prestigiosa e, al contempo, una scommessa editoriale per la Manni editore che ha progettato e varato l’Antologia curata dai professori Donato Valli e Anna Grazia D’oria.
«Abbiamo creduto subito in questo progetto – spiega Anna Grazia D’Oria – perché riteniamo che sia necessario far apprezzare, accanto alla letteratura salentina del Novecento, la voce poetica più immediata, l’unica, secondo il professor Donato Valli, capace di ricostruire quel senso di “appartenenza” ad una regione come la Terra d’Otranto (l’intera area jonico salentina che una volta aveva come capoluogo Lecce)».
«Abbiamo pensato – continua Anna Grazia D’Oria – ad un lavoro specifico, pensando alle opere più valide e più serie in dialetto, selezionate grazie all’esperienza di Donato Valli, miniera di salentinità. Il risultato è chiaramente solo uno spaccato della multiforme produzione esistente, ma utile a fornire ai lettori un quadro di quello che c’è stato e c’è in campo dialettale».
L’antologia raccoglie trentatré voci provenienti da Lecce, Brindisi e Taranto. I dialetti sono diversi…
«Abbiamo esteso il discorso alle tre città e alle loro province perché il Salento è stato sempre quello, e noi ci auguriamo che si faccia veramente una grande regione salentina che comprenda tutti e tre questi territori, e poi perché i letterati che hanno operato e che operano ancora in questa direzione hanno radici storiche comuni. Quindi anche se i dialetti sono un po’ diversi lo spirito, gli ideali, i temi e il loro sostrato si sente fortemente comune».
Quanto è importante conoscere una produzione dialettale?
«È importante perché rappresenta quelle radici che si stanno perdendo o “folklorizzando”. Si parla della pizzica perché è di moda, ma i nostri ragazzi non conoscono il linguaggio dei loro nonni. Questa è una perdita in termini di cultura e di ripensamento su se stessi, di quel passato che serve sempre per poter crescere e migliorarci. Guai a dimenticarlo…».
Quali i temi che maggiormente ricorrono?
«La poesia dialettale è più immediata e semplice di quella in lingua. Sono poesie che si rivolgono di più al popolo e trattano sentimenti e temi popolari. È una comunicazione più diretta, franca, spontanea sulla vita e sul suo fluire, quindi si parla di nascita e di morte, di quello che avviene nel proprio paese, nel proprio animo, i cambiamenti di costume. Poi ci sono anche punte più alte, come per esempio Nicola De Donno che usava il dialetto coniando dei termini propri e facendo addirittura filosofia in versi. I poeti delle tre province sono veramente tanti, ma la scelta che abbiamo fatto è stata rigorosa. L’idea è stata quella di dare un assaggio delle cose migliori e delle cose più rappresentative. Sicuramente però ne abbiamo trascurati tanti, non abbiamo inserito nomi che andavano inseriti. Ma un’antologia ad un certo punto deve darsi dei confini e quindi abbiamo deciso di contenere al massimo la produzione, scegliendo in base alla rappresentatività territoriale. In pratica al lettore si offre per ogni territorio una visione omogenea delle peculiarità più incisive e significative».