Poesia della terra. La forza e le suggestioni del dialetto, di Antonio Errico
Quella poesia di ferite profonde, di memorie leggere, che dice di storie e passioni, di bestemmie e preghiere, di destini di fatica e dolori, di fughe e ritorni.
Quella poesia che fa cadere parole come semi nei solchi, che ricolma con versi suonanti secoli di silenzi, quella poesia che ha stupori d’infanzia e saggezze di vecchi, che affabula e incanta, che è un urlo e una nenia, che dice la vita e la morte alla stessa maniera rabbiosa o pacata, superba e serena.
Quella poesia che ha conosciuto ogni tempo, ogni esperienza e avventura, che sa raccontare di una terra che impasta speranza e paura, che è come lamento di prefica, un canto di carrettiere, che a volte stringe la gola come un nodo d’arsura, che placa la sete come acqua della cisterna, che sa sussurrare l’amore, confessare una pena, che può essere rivolta pacata coscienza innocente.
Quella poesia: un dialetto.
Di quella poesia ora questo giornale propone un’antologia in quattro volumi, curata da Donato Valli e Anna Grazia D’Oria.
Trentatré autori che appartengono all’area di Taranto, Brindisi e Lecce (un’area geografica, storica, antropologica), poeti rappresentativi per fatti di contenuti e di stile, per tematiche e dimensioni problematiche, per lo sviluppo della poesia in lingua dialettale del Novecento salentino.
Il lettore ha già avuto modo di vedere: si tratta di poesia pietrosa e raffinata, talvolta religiosa, talvolta di dissidio, poesia del tempo profondo, della consolazione, della disperazione, del riscatto, del sogno.
Ma soprattutto poesia della terra: in ogni sua forma, in ogni aspetto d’amore, poesia dell’ossessione per tutto quello che non cambia, per quell’immobilità che sembra peccato senza remissione e - per contrasto o per compensazione - sembra quasi anche il frutto di una grazia.
Poesia che spesso dice della sofferenza, che dice della Storia com’è andata, degli eventi che a volte l’hanno tramortita, delle fatalità che l’hanno incatenata.
Però prima di ogni altra cosa è poesia della memoria di ciascuno e di una gente, della radicalità del vivere, della profondità del vivere, della profondità dell’essere, che attraversa stratificazioni di esistenze, che scava nella storia e nelle esperienze di questa penisola della penisola, di questo sud del sud, provincia difficile, periferia infinita, condizione di margine, linea di confine.
Ma poi: questa poesia fatta con una lingua di dentro, diventa un’ulteriore dimostrazione che nel tempo del Novecento il dialetto è diventato lingua d’arte.
Soprattutto dalla seconda metà: quando la scuola comincia - per fortuna - a diventare scuola di tutti; quando il miracolo economico degli anni sessanta porta un televisore nelle case di tutti; quando l’Italia comincia a perdere le forme e le storie della civiltà contadina per prendere quelle della civiltà industriale; quando si comincia a lasciare i paesi di biacca, e si fugge dalla paura di una grandinata che devasta la vigna, per andare nelle città del nord che garantisce un lavoro sicuro ma costringe la sera dentro un condominio.
Quando tutto questo accade, con i caratteri talvolta contraddittori di ogni svolta epocale, di ogni mutazione antropologica, il dialetto comincia ad esaurire la sua carica sociale ed a trovare un universo di espressione nella lingua poetica, con finalità anche sperimentali.
Così la poesia dialettale dell’Ottocento e dei primi del Novecento assume progressivamente le caratteristiche di una poesia in dialetto. (La distinzione tra poesia in dialetto e poesia dialettale è, come si sa, di Pietro Pancrazi.)
Così diventa la lingua di Nicola De Donno, che scava nel profondo della terra per giungere fino alle sue radici e poi riemerge rivelandone l’essenza; che sgretola i muri del conformismo, dell’apparenza; che si insinua nei labirinti del pensiero per scoprire lo sgomento che l’uomo prova davanti all’infinito.
Diventa la lingua di Pietro Gatti: come una culla, una tana, un antro di memoria, come la rivelazione di un’antica verità custodita dalla terra da cui tutto ha avuto origine, in cui tutto avrà fine, come una magia o un miracolo o un trasognamento, oppure come un pianto segreto, un canto sommesso, quasi un lamento di madre.