I documenti più umani che raccontano il passato sono le lettere. E le lettere degli emigranti, sgrammaticate, frammentarie, piene di pudori e di non detti, sono sempre bellissime, piccoli concentrati di umanità disperata: “...E un forte abbraccio per te mia cara moglie che sempre ti penso Fernando”. Sono carta utilizzata come un prolungamento di sé, per tornare nei propri luoghi, “toccare” le persone lontane, sentirsi vicini. “Ciao mio caro amore che ti penso, e scrivimi presto per farmi sapere le tue notizie. Bruno e arrivato e mi e portato il vino e il resto delle cose e sono rimasto molto contento solo che non cera una lettera, ciao Fernando”: sono stralci delle lettere inviate da Krefeld nel ’71 dal salentino Fernando Carluccio alla moglie, una storia che emerge da un archivio privato, come tanti ce ne sono nel Salento, riportata alla luce in un volume di Manni editore. Si chiama Novecento. Emigranti ed è la recente pubblicazione realizzata dalla scuola di I grado Aldo Moro di Mesagne, che racconta “la storia delle storie” dei milioni di italiani, di cui la metà delle regioni del Sud, che inseguirono il loro bisogno di dignità e andarono a cercare fortuna fuori dai loro paesi. Lo fa attraverso testimonianze toccanti, lettere (come quelle citate) e fotografie, racconti e ricordi del più grande esodo che il nostro Paese abbia mai conosciuto. Dal 1900 soltanto ai primi anni Sessanta si parla di oltre 18 milioni di italiani andati a lavorare all’estero. Ma l’emigrazione iniziò già nei decenni post unitari, quando le condizioni economiche in Italia subirono vari scossoni, per le disparità di sviluppo tra Nord e Sud, per una crescita dell’industrializzazione e le successive mutazioni nel settore l’agricolo, per una incapacità del governo centrale di andare incontro alle reali necessità della popolazione, dovuta anche al tentativo di restare al passo con l’Europa rispetto a politiche coloniali, commerciali e doganali. In poche parole soprattutto al Sud, se prima un’agricoltura di sostentamento e l’industria vinicola riuscivano a supportare e garantire la sopravvivenza alla maggior parte della popolazione delle campagne, dopo gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli accordi commerciali con la Francia, assolutamente penalizzanti per il Sud, la situazione diventò ingestibile. Il numero degli emigranti in pochi anni raddoppiò e in un primo tempo il governo di Francesco Crispi tentò anche di controllare questo flusso di manodopera e sfruttarlo vantaggiosamente. Il libro segue in particolare quest’epopea con lo sguardo sulla Puglia, raccogliendo informazioni e indagando sui viaggi della speranza dei nostri connazionali che non furono spesso molto diversi da quelli che attualmente affrontano gli immigrati che arrivano dai Balcani in Italia. Come un tragico copione che si ripete, molti morivano sulle imbarcazioni di fortuna utilizzate per affrontare i lunghi spostamenti. E la maggior parte dei nostri emigranti veniva ospitata negli altri paesi, soprattutto europei, con circospezione e sospetto, che raggiungevano spesso odio e discriminazione razziale. Per non parlare delle condizioni in cui le comunità di italiani erano costrette a lavorare, senza assistenza e appoggi né dalla madrepatria e né dalla terra straniera. Suggestivi nel libro i racconti sulla situazione in Germania e in Belgio. Nel capitolo “Testimoni dell’esodo” sono ricostruite le storie di alcuni emigranti salentini dei primi del Novecento attraverso i ricordi di chi vive ancora, o di figli e parenti. In particolare emergono le difficoltà dell’infanzia trascorsa da figli di emigranti, divisi dai bambini “normali” e in qualche modo ghettizzati. E poi emerge, dietro tutto questo, quella necessità primaria che spingeva a sopportare questi soggiorni in condizioni anche precarie (basterebbe pensare ai minatori in Belgio). Cioè l’esigenza, più forte del dolore, era quella di tornare in Italia con i soldi per potersi fare una casa. Praticamente è la stessa esigenza di tanti giovani che oggi arrivano nelle nostre città dai Paesi dell’Est: accumulare una cifra che renda possibile tornare nella propria terra e acquistare una casa tutta per sè. Per molti emigranti di un tempo il sogno difficilmente si abbandonava, anche a costo di sacrifici estremi. La lontananza dalla propria terra e dagli affetti fu per i nostri emigranti di ieri (come per quelli che oggi noi invece ospitiamo) lacerante. Perché dopo anni di lavoro in Belgio, Germania, Svizzera, Francia per un uomo del Sud Italia la vita cambiava per sempre: senza “casa” in un Paese straniero, senza “casa” nella sua patria diventata straniera anch’essa. Molti andarono in Australia, in America, qualcuno anche in Africa. La Storia passa sulle cose e cambia il volto di tutti.