La vicenda intesse quotidianità e aspetti un poco assurdi, com’è nello stile dell’autrice... Due righe e si entra in un mondo. Quello di un gruppo di studenti in cerca di equilibri meno precari: gli esami da finire, la tesi da preparare e una serie di impieghi «a progetto» che non vanno mai oltre qualche mese. L’appartamento dove abitano è della zia di una loro amica, che vorrebbe venderlo. E a loro viene rivolto l’inequivocabile invito di «guardarsi in giro». Un annuncio sul quotidiano locale li porta ad una vecchia villa con giardino, dove la periferia della città stempera caratteri d’epoca con l’insipida modernità edilizia. Angelica Brume, Gregorio Labrusca e Marco Schiava diventano coinquilini di Pietro Malbec. Ex bancario deluso dalla vita, «sguardo diretto e curiosità tortuose», uomo «di pochi principi, ma di molti precetti» Malbec offre, con l’alloggio, anche l’opportunità di un lavoretto, preparare spuntini e piatti per ricevimenti e banchetti. A trovare clienti li aiuta Loretta Brancaia, ex amante di Malbec e rampante organizzatrice di eventi cultural-mondani.
Un capitolo... ed eccola «attovagliata» la famiglia Almonte, chiamata a raccolta da Oliviero, re di una catena di supermercati, ma con mire anche su radio e televisione, cultura e edilizia... Sono ritratti in una serie di «medaglioni», attorno al tavolo per il banchetto domenicale che il capo impone almeno una volta al mese. La figlia Amaltea con il marito, avvocato e deputato. I figli: Achille il prudente e Ares lo sportivo. Le nuore: Fernanda l’invadente e Verdiana la procace. Le nipoti: Artemide e Lucrezia. E l’onnipresente segretario, Virginio Sparvo: grigio e untuoso, fedele e insidioso. Forza dei nomi scelti come presagi.
Un banchetto... Ed è questo il perno dell’intera vicenda. Oliviero, che avrebbe sognato una vita da studioso, costretto dalla repentina prematura morte del fratello a farsi carico dell’impresa di famiglia, osserva cinico e distaccato le diverse forme d’appetito dei suoi convitati. E progetta la beffa finale: si farà cucinare e si darà in pasto ai parenti.
Tutto il racconto è la preparazione di questa «sfida» finale. I «ragazzi della villa» che si appassionano alla nuova attività di catering, cercando così di sfuggire alla precarietà incombente. Almonte che li contatta e li «prova» con manovre inesorabilmente avvolgenti. E poi la proposta, assurda e agghiacciante. Che il tempo e le singole vicissitudini fanno diventare accettabile...
Nessun cedimento a toni crudi: non è l’orrore che interessa, ma la corrosiva, iperbolica metafora che la sfida contiene. E l’enigma può avere più di una lettura. Certamente è emblematico di questa società che con una serie di micro-precarietà mina le sue stesse fondamenta. È simbolo di una stagione che porta le generazioni a dilaniarsi l’un l’altra. Ma è il segno che anche l’imprenditore senza scrupoli si sente «cannibalizzato», al punto da decidere di darsi in pasto, materialmente, alla sua onnivora tribù.
Scrittura limpida e vivace, ritmo narrativo sempre piacevole, capacità di affrontare argomenti «ributtanti» con una lievità invidiabile. Sapendo persino giocare sul tema: i nomi dei protagonisti sono tutti di ispirazione vinicola e i dettagli gastronomici mostrano una competenza dell’autrice che i lettori delle pagine culturali del Giornale di Brescia già hanno potuto apprezzare. Paola Baratto ci offre così un altro sguardo acuto sul mondo. Seguendo un percorso che da La cruna del lago a Finisterre, da Di carta e di luce a Solo pioggia e jazz mostra una capacità di lettura profonda e impietosa della nostra complessa realtà. Nel segno della novità e della continuità.