Paola Baratto, Carne della mia carne

06-10-2007

Il pranzo è servito ai tre laureati, di Sergio Pent

Paola Baratto è una scrittrice tanto vera quanto sconosciuta. Di carta e di luce, edito nel 2001 da tale Zanetti, era un romanzo originale quanto perfetto, davvero da caso letterario nelle sue dinamiche di parabola fanta-sociologica. Le altre opere brevi della Baratto – tre – ci hanno offerto un ulteriore assaggio delle sue potenzialità non certo provinciali o appartate. Questo allegorico, delirante Carne della mia carne reca impresse le stigmate memoriali di certi film-apologo di Bunuel o del nostro Marco Ferreri. Pur non raggiungendo i vertici di bellezza strutturale e stilistica del compiutissimo Di carta e di luce, questa storia cupa e attuale – nonostante la nebbiosità costante dell’ambientazione – si fa leggere come un omaggio alla grande letteratura, al piacere di scavare nel profondo dell’animo umano alla ricerca di deviazioni e paradossi, quasi una sorta di scommessa che recupera – anche – certi virtuosismi diabolici di un Landolfi.
Angelica Brume, Gregorio Labrusca e Marco Schiava sono tre laureati precari dei giorni nostri. Citati quasi sempre solo con il cognome, diventano oggetti d’utilità temporanea anche agli occhi del lettore, in una società estranea, scostante e senza troppe occasioni di carriera. L’occasione – temporanea anch’essa ma ben presto determinante – è dettata da una collocazione – abitativa e lavorativa – presso una vecchia villa fatiscente in cui opera, in regime d’affitto, un ex-contabile di mezza età – Pietro Malbec – che, riciclatosi nell’arte della cucina, ha impiantato una attività di catering al servizio di famiglie benestanti della città, peraltro nebulosa e sfuggente come l’ideale scenografia della precarietà e dell’indifferenza.
Su un altro versante impera la famiglia Almonte, con il vecchio e solido capostipite Oliviero che domina sui parenti – figli e nipoti – con le redini dell’uomo che si è fatto da sé e ha costruito una fortuna con l’impronta del suo marchio in tutte le attività produttive della zona. Almonte adora i banchetti della domenica in cui impone ai familiari le sue bizzarre e predilette specialità culinarie. Vive come un re in declino e sente affondare il tempo sotto i piedi. È ricco e potente, perciò non può morire come un uomo comune. Vuole, in sostanza, lasciare qualcosa di sé «dentro» ciascuno dei suoi numerosi e spesso ingrati parenti.
Ecco, collegate i banchetti della domenica, l’attività di Malbec, la precarietà bisognosa dei tre laureati senza futuro, un’offerta di denaro che metterebbe a posto parecchie lacune economiche, e il pranzo è servito. L’apologo di Paola Baratto è preciso e sarcastico, amaro, nel delineare una società tronfia e opulenta che si nutre di se stessa, e allo stesso tempo offre uno spunto di riflessione – in questo caso uno «spuntino» – sull’incertezza di queste nuove generazioni che si svegliano ogni mattina già sapendo che il disagio è lì ad attenderle. Un romanzo necessario come metafora del presente, la conferma di una scrittrice in attesa di giudizio, che merita ben più del precariato in cui finora lei per prima è stata confinata.