Il senso del tempo nell'albergo della noia, di Massimo Tedeschi
Un gioco di specchi, un apologo sul Tempo, uno studio musicale in cui prevale il pianissimo, un acquarello in cui il verde brillante si disfa e poi si cristallizza, un arpeggio delicato sulle sillabe di un dizionario intimo.
Ci sono molti modi - lirici - per dire dell’ultimo romanzo della scrittrice bresciana Paola Baratto, Solo pioggia e jazz (Manni editore, pagine 149, euro 15). La prosa, invece, dice di un’invenzione magica e realistica al tempo stesso, irta di citazioni e genuine invenzioni.
Un’autrice di guide turistico-gastronomiche (ricordate il film Turista per caso?) approda con intenti stroncatòri all’isolotto di Aldin, una lingua di terra, prati e alberi non più lunga di mezzo miglio in cui sta acquattato l’Auberge de l’Ennui (sì, avete letto bene: l’albergo della noia). Un buen retiro dall’aria rètro dove si celebrano riti strani: le luci bassissime inibiscono lo svago della lettura, il bureau sequestra garbatamente gli orologi degli ospiti, le pendole sono immobili da tempo immemorabile, le villeggianti si entusiasmano ad osservare un chimerico bradipo che impiega anche venti giorni per risalire un albero, la biblioteca è folta di libri senza dorso e copertina, di cui si consulta un foglio estraibile alla volta. Il sottofondo musicale è monocorde, il maltempo costante, la cucina ristretta nella gamma di proposte: Solo pioggia e jazz è il titolo di una precedente stroncatura toccata all’Auberge gestito dall’enigmatico e filosofico Malco Avan che - come tutto il suo innominato Paese - porta le tracce di recenti ferite, di tragedie storiche da poco consumate.
Al Sanatorio Internazionale Berghof di Davos Giovanni Castorp e gli altri ospiti andavano (ufficialmente) per guarire dal male del secolo, in fondo per sfuggire a quella che sarebbe diventata la guerra civile europea. Ottant’anni dopo, all’albergo della Noia, un’eterogenea combriccola si ritrova non si sa se per guarire o per ammalarsi, di certo per sfuggire alla tirannia del tempo sincopato, assillante, iperproduttivo di fuori. Un’atmosfera torpida, blande liturgie quotidiane, una lentezza suadente e morbida irretiscono anche la turista per caso, che finisce per smussare la stroncatura e divenire - come gli altri - un’assidua dell’Auberge de l’Ennui.
Sull’isolotto incombe però una sorte oscura che, nel secondo movimento (pardon: capitolo) si svela: sulle rive del lago sono arrivate nuovissime autostrade, l’Auberge ha lasciato il posto a una clinica salutistica in cui si rispecchiano, martellanti, i ritmi del tempo di fuori. Il benessere è inseguito in maniera ossessiva, programmando ogni istante degli ospiti (se vi coglierà una sensazione di dèja vu, e ripenserete alla vostra ultima vacanza in un villaggio o in una beauty farm, non sarà casuale).
Sparito Malco Avan, il nuovo demiurgo è un sinistro dottore dall’inquietante passato. A minare il progetto provvederà la natura, con la scomparsa delle piogge e una eutrofizzazione putrescente del lago, che assedierà l’isolotto (e la clinica) con tonnellate di alghe graveolenti.
Il terzo, rapidissimo tempo del romanzo non scioglie la suspance che aleggia sull’isolotto, ma - in un gioco dichiarato di specchi - mette il lettore di fronte al proprio senso del tempo. Come certi carillon dalla musica malinconica e dolce, qui aprendo la scatola ci si trova di fronte all’immagine riflessa di se stessi e a un marchingegno perfetto ordito da un’autrice melodica, un’orologiaia lieve, una scrittrice di valore.