Quando gli ebrei divennero razza, di Titti Marrone
«Eccellenza (...) vi ammirai quando insorgeste contro le prepotenze rosse, e diedi con entusiasmo il mio modesto aiuto materiale al nuovo partito. (...) Ma non vi capisco più da quando si è scatenata la campagna contro gli ebrei italiani». A firmare questa lettera al duce è, nel 1938, Ada De Morvi, una dei tanti ebrei che si rivolsero direttamente a Mussolini, convinti di sortire un effetto. E questo fenomeno, messo in luce dalle missive raccolte da Paola Frandini in Ebreo, tu non esisti (edito da Manni, pagg. 224, euro 16) evidenzia un paradossale aspetto dell’Italia di quegli anni: l’idea disperata, ma che fu di non pochi ebrei, di poter scongiurare la persecuzione. Ora la nuova edizione del libro del direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista (Einaudi, pagg. 402, euro 12,80) fornisce elementi preziosi per ricostruire il percorso che portò all’eguaglianza «ebreo=razza» e alle leggi del 1938. «Non fu un processo lineare né sistematico», dice Sarfatti «ma un procedere a balzi. E anche se in Mussolini non mancavano già dagli anni Venti pensieri e convinzioni antisemite, fino alle leggi razziali non si trasformarono in pratica governativa». Nel 1919 il futuro duce si scagliò su «Il popolo d’Italia» contro «i grandi banchieri ebraici di Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca come a Budapest si prendono una rivincita contro la razza ariana». E se negli anni Venti l’Italia impazziva per la «Venere nera», la cantante Joséphine Baker, e perfino il «Tevere» diretto da Telesio Interlandi inneggiava alla bellezza nera, intorno al 1935, con la campagna d’Africa, il fascismo imboccò la deriva della politica razziale. Preparando per gradi gli italiani all’idea di razza inferiore - quella nera - con organi di stampa come lo stesso «Tevere» e «La difesa della razza». Fu come costruire un tunnel, con in fondo le leggi antiebraiche del 1938. Pure - lo annota lo stesso Sarfatti - tra il 1933 e il 1938 «le adesioni degli ebrei effettivi al Pnf riguardavano approssimativamente il 27 per cento dell’intera popolazione ebraica ultraventunenne di cittadinanza italiana». Integratissimi nella vita nazionale, molti ebrei, come il napoletano Aldo Sinigallia, erano fieri di aver combattuto nella prima guerra mondiale e conservavano divisa e decorazioni del Regio esercito, sentendosi tutt’altro che estranei alla retorica imperiale. Così, come annota Sarfatti, sentendo avanzare l’ondata ostile «si trovarono praticamente costretti a ipotizzare per l’antiebraismo cause extra fasciste e extra italiane». Nel giornale degli ebrei fascisti «La nostra bandiera» nell’estate 1946 apparve un articolo in cui si accusavano «alcuni centri antifascisti internazionali» di essere al lavoro «per trascinare l’Italia in una politica antisemita». «Gli ebrei fascistissimi - spiega Sarfatti - si aggrapparono disperatamente alla differenza tra Italia e Germania, credendo di poter influire su Mussolini stesso con ostentazioni di italianità». Ma a scongiurare l’impennata verso la politica razziale e antiebraica non servirono né il patriottismo di molti né le lettere al duce. E si arrivò così al 13 luglio 1938, quando gli ebrei italiani appresero di essere una razza, stranieri nel loro paese. Dal documento «Il fascismo e i problemi della razza» si sarebbe passati alla «Dichiarazione» del 6 ottobre, poi alle leggi razziali. Il libro di Sarfatti fa anche piazza pulita di un’inesattezza, ripresa anche da Bruno Vespa in Vincitori e vinti (Mondadori): quella per cui i deputati ebrei avrebbero votato a favore delle leggi. «Non fu così: dai resoconti parlamentari sappiamo che i deputati di origine ebraica - quattro alla Camera, nove al Senato - non erano presenti», dice Sarfatti. «Tale assenza nasceva dall’imbarazzo, o dalla sensazione di non poter far nulla. Altri avrebbero potuto opporsi, e non lo fecero: ad esempio, la Confindustria. E se delle proteste ebree non sarebbe rimasta traccia, di altre si sarebbe saputo». Invece nessuna voce si alzò contro quelle leggi. Di lì si cominciò, e accadde quel che accadde. Del tutto diverso, più lineare, sistematico e costante nel tempo, fu invece l’andamento della persecuzione negli altri Paesi europei. A parlarci della situazione in Ungheria è la scrittrice Edith Bruck, di cui «L’ancora del mediterraneo» sta per mandare in libreria Andremo in città (pagg. 138, euro 12). Deportata quando aveva dodici anni con la sua famiglia a Dachau dal piccolo villaggio ungherese di Tiszabercel, la Bruck dice: «Nella persecuzione io sono nata. Già quando ero piccola, prima di andare a scuola, quelli come me venivano considerati diversi e chiunque, anche l’ultimo degli analfabeti, poteva aizzare contro di noi un cane, o avere un contegno aggressivo». La Bruck sottolinea come i cattolici del suo Paese avessero verso gli ebrei un’attitudine ostile che nasceva «dall’antigiudaismo piuttosto che dall’antisemitismo razziale. Quando poi arrivarono le leggi - continua la Bruck - trovarono terreno fertilissimo. Ricordo che a farle conoscere furono gli araldi, che le leggevano nella piazza del paese». E oggi, di fronte a statistiche come quella che attesta in Italia un 49 per cento di persone convinte che di Shoah si parli troppo, e tediate da questo, la Bruck resta senza parole. «Ciò dimostra l’esistenza di un terreno fertile a nuovi sentimenti antiebraici, alimentati dalla confusione che si fa tra antisionismo e antisemitismo, e dalle accuse rivolte a Israele e estese a tutti gli ebrei. E noi, noi testimoni, siamo percepiti come scomodi, perché continuiamo a ricordare quel che è stato. Ma non ci resta che continuare, finché avremo fiato».