Paola Frandini, Ebreo, tu non esisti!

11-05-2006

Caro Duce, sono ebreo e ti scrivo, di Paolo Fallai

Le più struggenti sono quelle dei bambini, scritte con una calligrafia incerta su fogli strappati dai quaderni scolastici e inviate non al “Duce”, ma al figlio: “Caro Romano, prega il tuo babbo…”. Oppure “È un balilla con croce di merito e capo squadra che scrive, noi siamo tedeschi cattolici di origini israelite…”. Sono solo alcune delle migliaia di lettere scritte dagli ebrei italiani tra l’autunno del 1938 e la primavera del 1939 per chiedere una deroga, una eccezione, una qualsiasi difesa dalla tragedia delle leggi razziali. Sono i mesi in cui il “manifesto della razza”, voluto dal fascismo, trova applicazione in una serie di decreti successivi, sempre più precisi e sempre più violenti: gli ebrei non possono frequentare le scuole e le università e tanto meno insegnare, non possono sposare italiani, essere proprietari di aziende o terreni o fabbricati. Non possono vivere.
Per la maggior parte di loro – in quel momento in Italia gli ebrei sono circa 44 mila – il precipitare delle leggi razziali è un colpo durissimo e inatteso. L’indignazione, l’amarezza, la rabbia sono schiacciate sotto lo stupore e l’umiliazione che sembra paralizzare uomini e donne – molti di loro sono fascisti – la cui vita viene travolta. Una studiosa della letteratura ebraica, Paola Frandini, autrice tra l’altro di due importanti monografie su Giorgio Bassani e su Giacomo Debenedetti (Giorgio Bassani e il fantasma di Ferrara e Il Teatro della memoria, editi entrambi da Manni) si è imbattuta in alcune di queste lettere disperate e ha deciso, “non senza pagare un prezzo all’emozione” di ricercarle in modo sistematico per raccoglierle (diventeranno presto un libro), perché queste voci non fossero disperse.
Lettere al Duce, soprattutto, ma non solo: molte madri si rivolgono alla moglie Rachele, allegando spesso le fotografie dei figli vestiti da balilla, ma ci sono messaggi anche per la regina e per Edda Ciano. “Sono piene di adulazione – spiega Paolo Frandini – per il “padre della patria”, per il “grande cuore” di Mussolini. Sono lettere disperate di chi vede il mondo crollargli addosso. A leggerle nell’insieme rappresentano una inedita mappatura sociale dell’Italia dell’epoca: si va dallo sdegno dell’avvocato, all’italiano stentato di molti ai limiti dell’analfabetismo. Persone di media o di nessuna cultura, terrorizzate, che affidano le loro suppliche niente meno che a una lettera al Duce. Anche ai laureati tremava la mano”.
La gestione fascista di questo fiume di richieste di pietà è un esempio di “burocrazia dell’orrore”. Basta seguire le date: il 5 settembre 1938 viene varata la legge “per la difesa della razza nella scuola fascista”. Il 10 settembre viene creata, nel ministero dell’Interno, la sezione “Demorazza” affidata al sottosegretario Buffarini Guidi e al prefetto La Pera. Un ordine di servizio stabilisce cosa fare degli scritti degli ebrei: “Tutte le lettere firmate, senza determinazione del Duce, o di S.E. Sebastiani (Osvaldo Sebastiani, segretario di Mussolini, ndr), vanno all’Interno”. Esiste una direttiva precisa del capo del fascismo: “Tranquillizzare”. Sarà Sebastiani a firmare migliaia di bigliettini, tutti uguali e per questo in alcuni casi grotteschi, per illudere migliaia di ebrei italiani regalando loro un’ulteriore beffa.
Il 18 settembre 1938 Mussolini pronuncia a Trieste il discorso sulla “discriminazione”: sono le presunte facilitazioni per quegli ebrei che avevano partecipato alla marcia su Roma, o avevano avuto mutilazioni o figli morti durante la grande guerra. Paola Frandini ha raccolto anche le circa tremila lettere di coloro che speravano di rientrare in queste categorie: sono quasi tutte uguali, compilate su fogli di carta bollata da 6 lire. Non serviranno a molto “se non – fa notare la studiosa – alla nascita della corruzione più turpe, legata alla spoliazione di chi non poteva difendersi in alcun modo. Solo chi poteva pagare otteneva qualcosa. Tutti i funzionari, i gerarchi, i sottogerarchi spremevano il possibile”. Qualcosa di simile sarà ripetuto anni dopo con la “arianizzazione”, meccanismo per ottenere un cognome ariano e quindi un salvacondotto, pagato a caro prezzo alla corruzione fascista e spesso del tutto inutile: molti di questi cognomi sarebbero stati “revocati” dopo pochi mesi.
Tra le lettere non mancano nomi celebri, come quello di Mariù, la sorella di Giovanni Pascoli che tenta una disperata difesa del poeta fiorentino Angiolo Orvieto, ricevendo una sprezzante risposta da Sebastiani: “L’esame della famiglia Orvieto è ormai devoluto all’apposita commissione”. Ma questa microstoria della persecuzione razziale è fatta soprattutto di vicende minori, dall’angoscia di un muratore pisano – “Sono l’unico muratore ebreo” – al dirigente delle Assicurazioni Generali che conclude la sua supplica chiedendo – ancora una volta – “Se posso essere utile…”. All’industriale di Ferrara Hirsch, la cui persecuzione metterà sul lastrico decine di famiglie dei suoi dipendenti. Alla severa dignità del tenente dell’Aeronautica Valfredo Segre, che all’indomani delle leggi razziali non solo lascia il grado e l’arma, ma restituisce, allegandola, la medaglia di bronzo al valor militare appena ricevuta.
“Primo Levi scrive che non è possibile capire i campi di sterminio se uno non li ha passati – ricorda Paola Frandini – prima di leggere queste lettere pensavo che le leggi razziali fossero più “comprensibili”. Invece basta ascoltare queste voci per riconoscere che sono inconcepibili nello stesso modo. Possiamo solo continuare a chiederci: come è stato possibile? Come hanno potuto?»